la Repubblica, venerdì 19 marzo, 25 aprile 2004
la Repubblica, venerdì 19 marzo una buona cosa che la ”legge Boato” sia stata soffocata. Era inutile, come oggi ammettono i suoi stessi sostenitori, perché avrebbe dovuto assegnare al capo dello Stato un potere che ha già in modo esclusivo (la Costituzione assegna al solo presidente della Repubblica il potere di grazia)
la Repubblica, venerdì 19 marzo una buona cosa che la ”legge Boato” sia stata soffocata. Era inutile, come oggi ammettono i suoi stessi sostenitori, perché avrebbe dovuto assegnare al capo dello Stato un potere che ha già in modo esclusivo (la Costituzione assegna al solo presidente della Repubblica il potere di grazia). Era obliqua perché ad personam. Era impropria perché attribuiva alla politica un potere che non è, mai è stato, e mai dovrebbe essere della politica. Il governo applica la legge ed esegue le condanne. Il Parlamento decide amnistia e indulto. Il perdono di un uomo, di un solo uomo non può essere nella disponibilità né del governo né del Parlamento. La ”legge Boato” era il percorso tortuoso imboccato da un’élite incerta nell’assumere la responsabilità dei propri atti, d’interpretare correttamente il proprio ruolo istituzionale. una buona cosa che ce ne siamo liberati perché la questione se tenere ancora in galera Adriano Sofri, o liberarlo, ritorna ora nelle mani di coloro che ne sono i soli e autentici protagonisti: il capo dello Stato, il ministro di Giustizia (o, in sua vece, il presidente del Consiglio), la famiglia del commissario Luigi Calabresi. Per affrontare quest’ultimo (e, al solito, penosissimo) capitolo dell’affare Sofri, bisogna alleggerirlo delle scorie che pure avrebbe rilevanza discutere. Sarebbe interessante, per dirne una, riflettere sul patrimonio culturale di Alleanza nazionale. Fini e i suoi ”colonnelli” possono andare anche in pellegrinaggio al Muro del Pianto, ma sembrano conservare nel proprio paradigma politico-culturale le convinzioni dello Stato totalitario. Pretendere abiure o atti di sottomissione (come An ha chiesto ieri a Sofri) è coerente con uno Stato totalitario e non con lo Stato di diritto, «che esige un’adesione solo esteriore alle proprie norme e alle proprie condanne»: e Sofri ha accettato gli effetti della condanna: è in carcere! Come varrebbe la pena riflettere, per dirne una seconda, sull’incoerenza della sinistra. Oggi all’opposizione, protesta contro le mosse del governo ma, quando è stata al governo, fu incapace di avanzare la proposta di grazia al presidente della Repubblica. Liberiamoci perciò delle scorie che sono molte e prenderebbe troppo tempo e spazio. Afferriamo la questione nella sua essenzialità. C’è un uomo in galera. stato condannato per un omicidio. Il processo è parso a molti opaco, ma questo ormai conta soltanto per l’uomo condannato. L’omicidio è stato compiuto 32 anni fa. Sedici anni fa, l’uomo fu arrestato la prima volta e, dopo otto processi, ritenuto il mandante dell’assassinio. Da sette anni è in carcere. Quel che conta non è la sua innocenza né la sua colpevolezza, ma quel che è lui oggi e quel che deve essere la pena. Se ne sono occupati anche i giudici che lo hanno definitivamente condannato. Hanno scritto: il caso Sofri ha «due peculiarità assolute». Il lasso di tempo che separa la condanna dall’omicidio. Lunghissimo (28 anni). «Il totale inserimento dei condannati nella società civile». Due peculiarità che determinano «un effetto distorsivo della pena obiettivamente svincolata da ogni esigenza d’emenda e di recupero dei condannati alla società». La pena non è il cieco, ottuso corrispettivo del reato commesso. La pena non è vendetta. La pena ha una funzione di difesa sociale e di «risocializzazione del reo». Ma se da quell’uomo non bisogna difendersi perché è già «risocializzato», anzi gode di prestigio sociale e addirittura autorità morale, perché la pena? Nessuno contesta queste affermazioni. Per questo è apparso al capo dello Stato, al capo del governo, a 371 parlamentari d’ogni colore, al presidente della commissione europea e al Parlamento europeo, a uomini di chiesa e a uomini di cultura, a centinaia di migliaia di cittadini, che sia giunto il tempo che Sofri torni in libertà. La grazia è questo. Il modo di interrompere il potere punitivo dello Stato quando non c’è più ragione per punire perché quella punizione è ormai percepita, è soltanto vendicativa e non «risanatrice», inutilmente afflittiva, insostenibile, ormai inutile. La grazia è una prerogativa assoluta del capo dello Stato. suo un atto proprio, gratuito, straordinario, residuo arcaico del potere di un sovrano, in quanto tale arbitrario. Infatti, il capo dello Stato non motiva la sua decisione. Firma la grazia e concede la libertà interrompendo la condanna. Punto. Così è accaduto in 46 mila occasioni dalla nascita della Repubblica (tante, 46 mila, sono le grazie concesse). L’affare Sofri, fin qui, è nitido, non controverso. Sarebbe già concluso se non si fossero registrate tre anomalie o mosse improprie. Il ministro di Giustizia ritiene di avere «un potere di concerto della decisione», «una responsabilità politica» nel provvedimento. Addirittura, come ha avuto modo di dire il Guardasigilli, «un potere d’interdizione». Sono le avventatezze di un ministro che ha già dato occasione di imbarazzo. La grazia non è mai stata nella disponibilità di un governo, non è mai stata riconducibile al potere di indirizzo politico di un governo. Al ministro è assegnato soltanto il compito dell’istruzione del provvedimento. Assume informazioni sulla personalità del condannato, sul suo comportamento in carcere, sull’opportunità del suo reinserimento sociale, sul perdono della persona offesa dal reato. Svolto il suo compito, raccoglie in un plico le informazioni. Lo accompagna con una proposta favorevole o sfavorevole alla concessione. Lo invia al capo dello Stato. La sua controfirma al provvedimento di clemenza è un atto dovuto. la prima anomalia. Il ministro di Giustizia s’autoassegna un potere di decisione d’interdizione che non ha, che non ha mai avuto, che la lettera della Costituzione non prevede. Segue la seconda anomalia. Il capo dello Stato, pronto a concedere la grazia, dinanzi al rifiuto del ministro, decide di non firmarla. Si nega, in contrasto con quella del ministro, una sua interpretazione della Carta e dei suoi poteri. Con la conseguenza che la rinuncia rafforza l’infondata convinzione che la grazia sia un provvedimento duale, nella disponibilità di due soggetti: il capo dello Stato e il ministro di Giustizia. Segue ancora una terza anomalia. Il capo dello Stato sollecita al Parlamento una legge che definisca le proprie competenze costituzionali e finisce così per non esercitare né difendere le sue prerogative assegnando l’esito della partita al Parlamento. Con la conseguenza - osservano i costituzionalisti - di «sterilizzare un potere di grazia che non è suo personale, ma del suo ufficio, pregiudicandone la titolarità e l’esercizio da parte dei futuri presidenti della Repubblica». Il Parlamento è stato incapace di decidere e, ripeto, mi sembra una buona cosa. l’occasione di far tornare al loro posto responsabilità, poteri e doveri. Il capo dello Stato ha già mostrato di voler concedere la grazia a Sofri. Ascolti ancora una volta la volontà della famiglia Calabresi e poi decida. Se decide per la clemenza (come ha detto di volere), la firmi. Se il ministro di Giustizia ancora una volta si rifiuterà di controfirmare il provvedimento, può non curarsene: «il presidente del Consiglio è controfirmatore idoneo o meglio eccellente» (Franco Cordero). Se il presidente del Consiglio, come spesso gli capita, dice quel che non pensa e fa quel che non dice, il capo dello Stato sollevi un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. una scelta difficile e grave. Forse necessaria. Addirittura obbligata. In gioco non è più solo la libertà di Sofri, ma la Costituzione, i poteri del capo dello Stato, le prerogative e gli obblighi del governo. Giuseppe D’Avanzo