Corriere della Sera, venerdì 19 marzo, 25 aprile 2004
Corriere della Sera, venerdì 19 marzo Voi siete la storia. Voi siete la leggenda. Noi non vi dimenticheremo; e quando l’ulivo della pace metterà le foglie, intrecciate con gli allori della vittoria della Repubblica spagnola, tornate! Tornate da noi, e qui troverete una patria» (Dolores Ibarruri, Barcellona, 29 ottobre 1938)
Corriere della Sera, venerdì 19 marzo Voi siete la storia. Voi siete la leggenda. Noi non vi dimenticheremo; e quando l’ulivo della pace metterà le foglie, intrecciate con gli allori della vittoria della Repubblica spagnola, tornate! Tornate da noi, e qui troverete una patria» (Dolores Ibarruri, Barcellona, 29 ottobre 1938). Quando, nel 1995, Felipe González concesse la cittadinanza ai superstiti delle Brigate internazionali, gli spagnoli pensarono che la profezia della Pasionaria, di cui tutto si può dire tranne che non sapesse parlare in pubblico, si fosse compiuta. Non conoscevano ancora Josep Luís Carod-Rovira. Un uomo che ha chiamato il suo movimento (25 per cento in Catalogna, 8 cruciali seggi al Parlamento di Madrid) con il nome di un partito estinto, Esquerra Republicana de Catalunya, fondato nel 1931, che qui governò negli anni della guerra civile sino all’ingresso dei franchisti. Un uomo che in polemica con Aznar, furibondo per i suoi contatti con l’Eta, ha recuperato il motto più celebre della Pasionaria, «no pasaran». «Siamo passati e vi dico che passeremo» proclamò Mussolini dal balcone la notte della presa di Barcellona (26 gennaio 1939). Il fascismo è in effetti passato, anche se non nel senso che intendeva il Duce. L’anarchia no. Il mito di Carod-Rovira infatti non è Dolores Ibarruri, anche se ne usa il linguaggio. Non è il marxismo della giovinezza, quando militava in un gruppo estremista detto Partito socialista di liberazione e fu arrestato nella «retata dei 113», insieme con la futura moglie Teresa Comas. «Nell’animo di ogni catalano - assicura nel piccolo studio sotto le volte solenni del Parlamento - si nasconde un anarchico». Qualcuno lo è ancora in senso tecnico: superstiti come Helenio, che nel ’39 aveva 12 anni ma ricevette anche lui il suo fucile, usato «per andare a caccia di preti», e oggi si nasconde nelle taverne attorno alle Ramblas tra turisti ubriachi e prostitute. Amaro contrappasso: quand’erano al governo della Catalogna e della Spagna, gli anarchici si posero come vasto programma l’abolizione del sesso mercenario. Federica Montseny, ministro della Sanità, finanziò «centri di liberazione» per riconvertire le prostitute in sarte e il suo compagno di utopia Mariano Gallardo propose che la verginità fosse considerata «un crimine sociale» , da punire o almeno da tassare. Anche Carod-Rovira è considerato un romantico di governo; come allora gli anarchici, siede nella giunta catalana (Generalitat), in un’alleanza con socialisti e comunisti che muore dalla voglia di chiamare Fronte popolare ma definisce invece «catalanista e di sinistra». Obiettivo finale: «L’indipendenza». A chi nota che il suo partito è l’unico in Spagna a proclamarsi repubblicano, risponde: «Io non sono spagnolo. Sono catalano. Ho detto le prime parole di spagnolo in pubblico giovedì scorso, per i morti di Madrid. Gli spagnoli, magari non tutti, partecipano di una cultura autoritaria. La nostra è una cultura di libertà». Jordi Pujol, al governo della Catalogna per 23 anni, ne è preoccupato. Considera Carod-Rovira populista e forse un po’ pericoloso. E non solo perché da Conseller en Cap, numero 2 dopo il presidente Pasqual Maragall, ha incontrato a Perpignan due uomini dell’Eta, nomi di battaglia Mikler Antza e Josu Ternera, che hanno poi annunciato una tregua nella sola Catalogna. Pujol sa che i sogni indipendentisti vanno manovrati con cura. Soprattutto qui. Spiega che queste cose non può dirle in pubblico perché impopolari, ma insomma non è mica scritto che i catalani debbano sempre rimetterci, «siamo stati la capitale degli anarchici, poi dei trotzkisti, ora dei no global». L’unica epoca in cui si è portato a casa qualcosa, fa capire, è stata la sua, l’era di un Andreotti bravissimo nella manovra e nel compromesso, un Andreotti che però non abbraccia ad Arcinazzo il maresciallo Graziani ma che intona un canto patriottico davanti a Franco, un Andreotti catalano. E infatti si intuisce che Pujol un poco soffre il suo erede radicale e forse, un poco, lo invidia. Al nome di Pujol, Carod-Rovira spegne il sorriso sotto il baffo fulvo da cinquantenne deciso a restare giovane e alza le braccia: «Nutro un profondo rispetto per il presidente. Però è finito male. Non doveva accordarsi con Aznar». Pujol contrattava con Madrid, da Madrid Carod-Rovira vuole andarsene. Anche venendo a patti con l’Eta? «Quell’incontro c’è stato. Ho visto esponenti dell’Eta proprio come hanno fatto socialisti, popolari, e anche importanti politici italiani» ammicca Carod-Rovira, mostrando una lettera firmata dal presidente emerito Francesco Cossiga. Sì, però lei è accusato di aver ottenuto dall’Eta una tregua solo per voi, tant’è che è stato costretto a dimettersi. «Questo non è vero. La tregua è stata una mossa unilaterale. E le ricordo che non sono più Conseller en Cap ma resto ministro». Le pare edificante il pensiero che il terrorismo basco possa colpire là e non qui? «Io auspico non ci siano morti né là, né qui» è la risposta che zittisce ma non convince. Qui, dice Carod-Rovira, in pochi hanno creduto alla pista basca per l’ 11marzo. La radicalità del voto catalano, con un’affluenza record e con il Partido popular schiacciato sotto il 15 per cento, non indica solo il rigetto di un governo centralista. Le linee di divisione della guerra civile sono ferite non guarite o riaperte, il franchismo non è questione rimossa da tutti sinistra compresa come nel resto del paese. Carod-Rovira chiede anzi a Zapatero «una seconda Transizione che spazzi via l’architettura parafascista di Aznar», nome che il capo degli indipendentisti pronuncia con una smorfia di disgusto; «Aznar non ha mai condannato la dittatura, Aznar andava in vacanza a giocare a domino a Quintanilla de Onesimo, il paese di Onesimo Redondo, uno dei fondatori del falangismo». Com’è ovvio non tutti partecipano della radicalità di Carod-Rovira; però Barcellona è il luogo in cui le nuove radicalità si saldano alle antiche, gli anarchici hanno tuttora il loro sindacato, la Cgt (erede della Cnt: oltre un milione di iscritti, un solo funzionario stipendiato), agli anarchici si rifanno i ragazzi del movimento «Okupa» versione locale degli squatter; e sia Carod-Rovira sia Pujol citano una frase di Bush padre, «non sarà un corteo a Barcellona a cambiare la nostra politica», il primo con orgoglio, il secondo con angoscia. Pujol teme il ritorno delle «due Spagne», delle suggestioni Anni Trenta. Nelle conversazioni informali racconta che la sua famiglia era repubblicana, uno zio ufficiale lealista un altro zio incarcerato, ma un altro parente era franchista: bruciato vivo. «Le atrocità ci furono su entrambi i fronti, chi riapre il discorso a volte lo fa in modo strumentale». A volte no. La mostra più visitata è da sei mesi quella del museo di storia catalana dedicata alle prigioni di Franco («Perderàn la libertad y legaràn a sus hijos un nombre infame»), al cinema danno un film di otto anni fa, «Libertarias» di Vicente Aranda, nelle librerie, accanto ai testi sui catalani perduti da Dalì a Vazquez Montalban, sono esposti i classici della guerra civile crocevia del ’900 scritti non a caso da stranieri: Malraux, Hemingway, Bernanos, Koestler, Gibson e ovviamente Orwell, anche se, ammonisce Pujol, pure Omaggio alla Catalogna andrebbe letto con «discernimento». Però non sembra più tempo di vecchi saggi; e anche se la sede degli anarchici è tornata a essere il convento degli scolopi, anche se sulle ramblas non passano più tram dipinti di rosso e nero come la loro bandiera, c’è ancora a Barcellona qualcuno e qualcosa di strano - ai semafori giocolieri anziché lavavetri, il Camp Nou negato al Real Madrid per la finale dell’altra sera della Coppa del Re -, a lanciare quelli che a Camus parevano «clamori verso l’impossibile». Aldo Cazzullo