La Stampa, mercoledì 17 marzo, 25 aprile 2004
La Stampa, mercoledì 17 marzo La lezione spagnola è il titolo di un librone appena uscito (Il Mulino, 459 pagine, 25 euro) che i giornalisti italiani più diligenti hanno fatto a tempo a infilare in valigia prima di volare a Madrid per la strage, le elezioni e quindi l’ascesa imprevedibile di José Luis Rodriguez Zapatero
La Stampa, mercoledì 17 marzo La lezione spagnola è il titolo di un librone appena uscito (Il Mulino, 459 pagine, 25 euro) che i giornalisti italiani più diligenti hanno fatto a tempo a infilare in valigia prima di volare a Madrid per la strage, le elezioni e quindi l’ascesa imprevedibile di José Luis Rodriguez Zapatero. Si tratta di un testo molto interessante del sociologo Victor Pérez Dìaz, preceduto da un saggio di un centinaio di pagine - ancora più interessanti per un italiano - in cui il politologo ed economista Michele Salvati, con la consueta e lucida onestà, spiega in sostanza come la classe politica spagnola sia ormai divenuta assai migliore della nostra, e perché. Eppure non si trova, in questa lezione, una verità che forse è la più scomoda da accettare nella sua evidenza biologica, nella sua immediatezza puramente anagrafica. E cioè che nella Spagna democratica si diventa presidenti a 40 anni, o poco più. Il confronto con l’Italia appare a questo proposito, più che penoso, allarmante. Quando conquistò il potere nel 1976, Adolfo Suarez aveva infatti 43 anni. E ne aveva 36 re Juan Carlos. Nel 1982 Felipe González arrivò alla Moncloa a 40 anni. Nel 1996 José Maria Aznar vinse le elezioni a 43 anni. E ora si ritira a 51, «in perfette condizioni per una nuova vita». Zapatero trionfa, pure lui, a 43 anni. I manifesti elettorali ancora appesi per le vie di Madrid rendono l’immagine di un leader che è giovane, non giovanile. Osservato dal vivo, il futuro premier mostra un volto integro, degli occhi vivi, un’indiscutibile energia. Il suo personalissimo album fotografico, in parte consultabile nella biografia autorizzata del giornalista Oscar Campillo, evidenzia le immagini di un «jovenzuelo», un giovanottello con jeans, polo e golfetti a strisce, abbracciato alla bella moglie, o giovane padre un po’ trendy, con carrozzino e bimbe. E sono sue foto di tre quattro cinque anni fa. Sempre in quel libro si apprende che fa il karate e più di tutti gli piacciono i Supertramp, che legge Javier Marías e va a vedere Almodòvar, artisti di una Spagna evoluta ed europea. E insomma. Come lo era Aznar, a suo modo, anche Zapatero è un personaggio immerso nel suo tempo. Con assoluta naturalezza trasmette quindi ottimismo nel futuro, voglia di fare. Non è poco. Tra «cambio» e ricambio, politico e generazionale, c’è dunque da queste parti un nesso virtuoso, una coincidenza salutare, una valvola di sicurezza. La meglio gioventù non è in Spagna il verso di un poeta che non c’è più (Pasolini), né un bel film che per una volta si fa grande successo televisivo. A differenza che da noi, «la mejor juventud» è un elemento decisivo della realtà sociale. I giovani contano, pesano, fanno cambiare le decisioni del potere. Non sono gli stupidotti che recitano nelle trasmissioni di Maria De Filippi. Né gli eterni bambinoni ormai cinquantenni dei film di Verdone o Castellitto, campioni d’incasso. Erano tutti ventenni e trentenni gli spagnoli che sabato scorso sono andati a manifestare sotto la sede del Pp per far dire al governo la verità sulla strage dei treni. C’è chi fa risalire al voto giovanile (un milione circa di nuovi elettori) il successo dei socialisti. del tutto normale, qui. E se si prova a farlo presente, si viene guardati con aria interrogativa: ma questo, da dove viene? Dall’Italia, appunto. Dove l’ultimo consapevole ricambio politico generazionale risale al 1969, patto di San Ginesio, dal nome di un paesino marchigiano dove gli allora giovanotti De Mita e Forlani si misero d’accordo per conquistare, come fecero di lì a poco, la segreteria Dc. Poi più nulla. O meglio: qualcosina di significativo si vide forse al tempo dei sindaci (Rutelli, Orlando, Bianco, Cacciari, Bassolino) fra il ’92 e il ’93. Ma presto quella leva di giovani amministratori si annacquò in un indistinto «nuovismo». Oggi, a 67 anni, Berlusconi si rifà «il tagliando», cioè ricorre alla chirurgia estetica per sembrare più giovane in tv. Mentre il suo benemerito avversario Prodi, pressappoco coetaneo, è costretto per la terza volta in nove anni a smentire di tingersi i capelli. Quasi più vicino ai novanta che agli ottanta, Andreotti è ancora l’unico a capire la politica estera; l’ex Capo dello Stato Scalfaro miete applausi girotondini; il presidente emerito Cossiga è una star televisiva e ogni tanto si permette di dare del «ragazzino» a Berlusconi. Ecco, qui non accadrebbe mai. Esaurito il loro ciclo, in Spagna i politici non cercano di diventare eterni. Si ritirano. Senza psicodrammi si è ritirato Jordi Pujol, il Mosè dell’autonomismo catalano; allo stesso modo non si è ripresentato alle elezioni Gonzalez. L’altro giorno ”El Mundo” ha pubblicato un articolo su Alfonso Guerra, storico vicepresidente del decennio socialista, che invece s’è ripresentato, a Siviglia. Il titolo era «El ùltimo mohicano». Del personaggio si metteva in evidenza il glorioso passato, il suo far parte della «vecchia guardia», l’andatura lenta, la chioma canuta: a 64 anni. «Vecchia guardia», «vecchio leone», «l’unico sopravvissuto» del Parlamento del 1977. E questo quando in Italia girano ancora quelli della Costituente (1946). E alcuni di loro, ultraottuagenari, si prendono pure sfizi proibiti. Fantastico. E però, tra le varie lezioni della Spagna, c’è di sicuro anche quella che la politica e il potere non sono da intendersi come un’esclusiva dei «carozas», dei vecchierelli. qualcosa che va al di là degli schieramenti. Ora, per dire, hanno perso, ma anche il gruppo dei popolari che s’era formato attorno ad Aznar era fatto di trenta-quarantenni. In uno sfortunato libro sui popolari, Los Ppijos. El turno de la generacion Agag (che sarebbe Alejandro, il genero di Aznar), sfortunato perché scritto in previsione della vittoria, questi baldanzosi giovanotti sono detti «becerriles», come dire torelli da corrida. Che sarà pure eccessivo, ma rende l’idea. Sulle ragioni di tutto questo giocano mille cose. Ma i risultati purtroppo si vedono, come le differenze. E se la gerontomania italiana è più complessa da decifrare e a volte grottesca da raccontare, la storia della Spagna dice che la peggio vecchiaia, «la peor vejez» è ancora qui saldamente identificata con la dittatura, l’isolamento, l’oscurantismo. Perché Franco aveva 82 anni, ma per un tempo che parve lunghissimo governò come un povero vecchio incartapecorito, poi intubato anche nelle riunioni e infine - ma non era neppure la fine - tenuto in vita in maniera artificiale. Fino a quando il vecchio premier Arias Navarro annunciò in tv: «Espanoles, Franco ha muerto!». Era il novembre del 1975. Zapatero aveva 15 anni. E in Italia ancora nemmeno s’immaginava che la Spagna ci avrebbe potuto dare, fra le tante, anche quella lezione anagrafica. Filippo Ceccarelli