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 2004  aprile 25 Domenica calendario

La Stampa, venerdì 19 marzo Il generale Jalilli scosse forte la testa, come chi non capisce la stupidità umana

La Stampa, venerdì 19 marzo Il generale Jalilli scosse forte la testa, come chi non capisce la stupidità umana. «Siete davvero strani voi occidentali, che ormai di Osama avete fatto un totem. Tutti a dire Osama qui e Osama là, e io invece sono pronto a fare un patto. Ecco la mia proposta». Il generale stese la mano con un gesto brusco, e la fiammella della candela vacillò fino a quasi spengersi. Eravamo nel vecchio palazzo dei servizi segreti, a Kabul. Il generale Jalilli è uno che conta: comanda i servizi segreti afghani, con l’appoggio della Cia e dei Delta Force dà la caccia agli uomini del terrore; e quell’incontro con lui - alcune settimane fa - era la mia tappa d’un reportage sulla pista che porta a Osama. «Senta - disse Jalilli - io le cedo Osama, che è vivo e so anche dove ora è rifugiato. Io lo lascio libero, che faccia quello che vuole e se ne vada dove meglio crede. Ma, in cambio, lei mi dà nelle mani al-Zawahiri». Il generale sorrise. «Caro giornalista, voi dei massmedia avete fatto dello sceicco saudita il simbolo stesso di al-Qaida. Errore clamoroso, perchè la testa, e il cuore pulsante, e lo spirito feroce, di al-Qaida stanno, invece, tutti dentro al-Zawahiri». Fino a quel giorno di fine dicembre 2003 mai nessuna fonte ufficiale aveva detto pubblicamente che Osama è certamente vivo, e che i ”servizi” sanno anche dove - più o meno - egli sia. Però, quanto a Zawahiri e al fatto che ”il dottore” sia ben altro che il Numero 2 del terrorismo mondiale, questa è una notizia che circola da tempo nelle valli fonde che accompagnano il confine afghano ma anche nei corridoi ovattati di Fort Langley e tra gli eredi britannici di James Bond. Osama, certamente, ha il fisico del leader carimastico, con quella sua magrezza ascetica, la lunga barba, il viso scavato dal colloquio quotidiano con il suo Allah. Neanche un costumista di Hollywood avrebbe saputo inventarlo più vero di quanto egli ci appaia. Ayman al-Zawahiri, invece, basso, gli occhialetti, il corpo di chi ha difficoltà a tenersi nel mangiare, è la figura perfetta del luogotenente, il Sancho Panza di quel suo don Chisciotte saudita, allampanato e invasato di furori divini. Lo chiamano ”il dottore” perchè è veramente un medico, discendente d’una progenie di medici (padre, zii, fratelli) che al Cairo curava le famiglie più importanti della vecchia monarchia di Faruk e poi, con il putsch di Neguib e Nasser, curava allo stesso mondo le famiglie più importanti del nuovo potere militar-repubblicano. Era, insomma, il medico dei ricchi, ma anche il medico di quel microcosmo di intellettuali e d’idealisti che, dagli scanni dell’università di al-Azhar, avevano imparato a predicare la lotta contro gli occupanti britannici e presagire il destino d’un risorgimento arabo, sulle ceneri stesse del vecchio colonialismo occidentale. Quando, nell’81, i fondamentalisti ammazzarano Sadat, per punirlo del ”tradimento” che aveva siglato con gli israeliani e con Washington, Ayman ”il dottore” fu uno dei primi a essere sbattuto in galera. Bazzicava le cellule più estremiste della ”Fratellanza musulmana”, e al Cairo - dove il Mukhabarat conosce vita e morte e miracoli d’ogni egiziano che non taccia perduto nelle tazzine di té alla menta - lui stava nei posti più elevati della Lista Nera. Non riuscirono a scoprire grandi colpe sul suo conto, e certamente la rete di amicizie importanti (e di protezioni trasmigranti tra classismo e ideologia religiosa) lo aiutò a uscire vivo dalla prigione dopo solo tre anni di ceppi. Si salvò, ma anche scomparve dalla circolazione. In quegli anni era intanto cominciato il Jihad, la guerra santa dei combattenti mujahiddin contro gl’infedeli dell’Armata Rossa che avevano passato il lungo ponte sull’Amu Darya con uno schieramento dove c’era l’armamentario più moderno di Breznev: missili, i T-72, gli elicotteri MI-24, blindati e corazzati che nemmeno al tempo del Terzo Reich. Solo che i mujahiddin avevano dalla loro due appoggi molto importanti: il primo era quello, mistico, pio, celestiale, d’una fede che garantiva il paradiso delle 70 uri a chi muore in battaglia; il secondo, assai più concreto, materiale, erano le montagne di dollari che arrivavano dall’Arabia Saudita e i micidiali missili Stinger che gli uomini della Cia passarono agli ”afghani” che si battevano contro gli atei di Mosca. Se gli Stinger arrivarono in Afghanistan con l’aiuto dei servizi segreti pakistani, l’Isi del generale Gul, i soldi arrivavano invece dalla casse di Osama ma - soprattutto - dal «fund raising», la raccolta di denaro, che il dottore egiziano faceva girando per il mondo con quattro passaporti falsi e la sua forte capacità di predicazione nelle moschee del Medio Oriente, dell’Asia, dell’Africa settentrionale, perfino dell’Occidente (uno dei suoi passaporti falsi era danese, e lo ”Zawahiri” che la foto del documento ritraeva aveva, non solo un altro nome, ma anche una faccia che - con i capelli tagliati corti, i baffetti, uno sguardo paziente - poco aveva a che spartire con lo Zawahiri che in questi ultimi anni ci hanno mostrato i video di Osama trasmessi dalla tv al-Jazira). Ayman il dottore è stato presente nei messaggi mediatici dello sceicco di al-Qaida fin dal primo giorno, quando gli americani avevano appena cominciato a bombardare l’Afghanistan e quel video di minacce e di predicazione - i kalashnikov, le giacche militari, ma anche la mano levata a spiegare e ad ammonire - apriva una nuova porta, quella dell’informazione e della creazione del consenso, nella guerra asimmetrica che il gigante americano aveva lanciato contro quella banda di scalzacani mal vestiti e (apparentemente) perduti ancora nel Medio Evo. Ma, altro che Medio Evo. Osama faceva il suo lavoro come un allievo prezioso di McLuhan, e al-Zawahiri al suo fianco sembrava l’ombra silenziosa del discepolo però si capiva subito che ci doveva essere ben altro, dietro. Il ”dottore” stava in silenzio, da parte, e se i due marciavano, la telecamera inquadrava soprattutto lo sceicco; ma non c’era video che non mostrasse anche al-Zawahiri. Con bastone e senza bastone, con fucile e senza fucile, fermo o in marcia - comunque lui c’era sempre. E in un mondo dove la retorica dei simboli ha un valore fortissimo, dove l’esaltazione del leader è la componente essenziale ed esclusiva del comando, l’accostamento dei due protagonisti non poteva non far immaginare che il Sancho Panza egiziano si era riscattato dal suo ruolo codificato. Appariva come il discepolo, ma chi sapeva leggere aveva già capito altro: che se uno dei due andava a pennello per la cultura massmediologica dei simboli semioticamente appaganti, era però l’altro - con quella sua presenza costante, continua, una presenza immancabile - a dire chi nei fatti andava visto come il capo vero, quello che conta e decide. Mimmo Candito