Vanity Fair, 1 aprile 2004, 1 aprile 2004
Non deve sorprendere che il realismo della Passione si basi su una violenza martellante. Di Braveheart, il film che gli valse l’Oscar, Gibson girò due volte solo una scena, quella dei cavalli che finivano impalati su aguzze lance di legno: voleva rendere l’immagine nel modo più esplicito possibile
Non deve sorprendere che il realismo della Passione si basi su una violenza martellante. Di Braveheart, il film che gli valse l’Oscar, Gibson girò due volte solo una scena, quella dei cavalli che finivano impalati su aguzze lance di legno: voleva rendere l’immagine nel modo più esplicito possibile. La violenza è il suo linguaggio cinematografico, e il suo Gesù viene spietatamente preso a pugni, calci e frustate. Dopo l’arresto viene portato in catene dagli alti sacerdoti e, durante il tragitto, picchiato e scaraventato giù da un ponte. L’occhio destro è gonfio: non riuscirà più ad aprirlo. «Non cercavo un Gesù carino», spiega Gibson. Dopo la consegna ai romani, le cose si mettono ancora peggio. Gibson si è ispirato fedelmente al trattato clinico sulla morte di Gesù pubblicato sul ”Journal of the American Medical Association”: «La flagellazione procurava lunghe e profonde lacerazioni, con massiccia perdita di sangue. Lo strumento era una frusta con lacci di cuoio intervallati da sfere di ferro e aguzzi ossi di pecora. La tortura portava il condannato alle soglie della morte». Dettagli che La Passione rende fin troppo bene.