Vanity Fair, 1 aprile 2004, 1 aprile 2004
Vanity Fair, 1 aprile Fuori piove, quando vedo La Passione di Cristo per la prima volta. Jeans, camicia hawaiana, Mel Gibson spiega che il montaggio non è finito
Vanity Fair, 1 aprile Fuori piove, quando vedo La Passione di Cristo per la prima volta. Jeans, camicia hawaiana, Mel Gibson spiega che il montaggio non è finito. Si siede e le luci si spengono. Sullo schermo appaiono le parole scritte da Isaia quattro secoli prima di Cristo: «Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità; grazie alle sue ferite noi siamo stati guariti». Assistiamo, nelle due ore che seguono, a tanto trafiggere, stroncare e ferire. Qualcuno in platea piange. Io trovo il film avvincente e inquietante. Il Cristo risorto cammina, volto e passo deciso, verso la luce, su un sottofondo marziale di tamburi. Gibson ha detto una volta che non gli interessava girare un film religioso. Era vero. Perché questo è un film di guerra. Dieci giorni più tardi arrivo alla Icon Productions di Santa Monica e mi scortano nella saletta dove sta lavorando al montaggio. Ha spesso ripetuto che la sua sceneggiatura sono i Vangeli e il suo regista lo Spirito Santo. Ma è evidente il suo desiderio di realismo. «Voglio trasportare gli spettatori là dove tutto avvenne» dice, «ed essere fedele ai Vangeli. Cosa che nessuno ha mai fatto prima».