Arianna Dagnino, Macchina del Tempo, maggio 2004 (n.5), 24 aprile 2004
Docente di Sociologia urbana all’Università degli studi di Milano-Bicocca, dove è anche prorettore del Corso di laurea in Scienze del turismo e comunità locale, nonché direttore della commissione che presiede al programma QUA_SI, Quality of life in Information society (qualità della vita nella società dell’informazione), Guido Martinotti è uno dei più attenti osservatori dei futuri sviluppi delle nostre metropoli
Docente di Sociologia urbana all’Università degli studi di Milano-Bicocca, dove è anche prorettore del Corso di laurea in Scienze del turismo e comunità locale, nonché direttore della commissione che presiede al programma QUA_SI, Quality of life in Information society (qualità della vita nella società dell’informazione), Guido Martinotti è uno dei più attenti osservatori dei futuri sviluppi delle nostre metropoli. Quali sono secondo lei gli architetti/urbanisti più ”visionari” oggi all’opera? Non ho particolari preferenze, mi sembra che tutti i grandi cui mi riesce di pensare, Aulenti, De Carlo, Foster, Gehry, Gregotti, Foster, Piano condividano questo equilibrio. Che mancava invece ai visionari ”maledetti architetti” di Tom Wolfe in ”From Bauhaus to Our House”. Quali saranno le città del mondo che risulteranno più all’avanguardia sotto il profilo tecno-urbanistico? Quelle asiatiche, forse? Quali sono a suo parere i progetti più innovativi? Non saranno solo quelli relativi alle grandi città, ma anche quelli dei piccoli paesi, come Partenay, borgo digitale francese di 17 mila abitanti nel Poitou-Charentes, oppure di università di medie dimensioni come quella di Twente in Olanda, totalmente permeata da un network wi-fi (senza fili). L’uomo è destinato ad abitare in grandi agglomerati urbani, oppure la crescente digitalizzazione sta spingendo verso una frammentazione in comunità più piccole (cittadelle, isole flottanti, etc.) col rischio di una sorta di ”autosegregazione”? Secondo le stime più recenti rilasciate dalle Nazioni Unite, la specie umana, dopo un percorso lungo forse 120 secoli, è diventata in maggioranza urbana. E le stime ci dicono anche che questa crescita continuerà nel primo quarto del Ventunesimo secolo fino a raggiungere complessivamente i due terzi della popolazione urbana. Ma le megalopoli che stanno emergendo da questo colossale processo sono ben diverse da quelle che stanno nella nostra memoria. Intanto ci sono due tipi di città: da un lato le vibranti metropoli del primo mondo, le giungle d’asfalto che tutti ben conosciamo e che stanno al centro dell’iconografia filmica e televisiva con i loro grattacieli; dall’altro ci sono le enormi concentrazioni dello squatting e delle bidonville, che stanno risucchiando il grosso della popolazione urbana mondiale. Nel 2025, si prevede che cinque miliardi di persone vivranno in città, e più di 4 miliardi di queste abiteranno nelle metropoli del Terzo mondo. Le città del primo mondo saranno soprattutto metropoli di seconda generazione, cioè luoghi del consumo e della mobilità, con una ridotta presenza di abitanti e una proporzione crescente di visitatori, pendolari o city user. Soprattutto le seconde saranno avviluppate da una fitta rete digitale di rapporti dove spazio e distanze saranno annullati. Ma chi dice che questo diminuirà i rapporti sociali? Finora non è avvenuto.