Arianna Dagnino, Macchina del Tempo, maggio 2004 (n.5), 24 aprile 2004
Per la prima volta nella storia, a partire dal 2007, più della metà degli abitanti del pianeta vivrà nelle città
Per la prima volta nella storia, a partire dal 2007, più della metà degli abitanti del pianeta vivrà nelle città. Ad annunciare la svolta sono gli esperti di demografia delle Nazioni Unite, nell’ultimo rapporto sulle ”Prospettive dell’urbanizzazione mondiale”: dai tre miliardi di persone che attualmente risiedono in città si arriverà a cinque miliardi nel 2030, con un tasso medio di crescita dell’1,8 per cento annuo. A questo ritmo, Tokyo, la città più popolosa del mondo con i suoi 35 milioni di abitanti, manterrà il primato superando i 36 milioni nel 2015, seguita dalle indiane Bombay (22,6 milioni) e Nuova Delhi (20,9 milioni), da Città del Messico (20,6 milioni) e da San Paolo del Brasile (20). Non dobbiamo pensare a un’inesorabile colata di cemento: architetti e urbanisti stanno lavorando per rendere più accoglienti e funzionali queste megalopoli. Anche ”loro” saranno ”intelligenti”: come gli esseri umani, i computer e i robot di futura generazione. Si trasformeranno in organismi sofisticati e sensibili, in grado di modificare il loro aspetto e le loro funzioni in base agli stati d’animo e alle necessità dei milioni di individui che le abiteranno. Fra i più convinti di questo è un maestro della costruzione in chiave hi-tech come l’olandese Kas Oosterhuis, direttore dell’Hyperbody Research Group e padre dell’architettura e-motiva, il quale concepisce gli edifici come entità vive, lui le chiama ”hyperbodies”, dotate di pelle (la facciata), organi (impianti elettrici, tubature, sistemi di riscaldamento e di aria condizionata) e di linfa vitale, sangue (flussi di bit) che scorre nelle arterie digitali. Edifici come ”ipercorpi”, dunque, che possono essere soggetti a una serie quasi infinita di manipolazioni. «Gli edifici sono i mattoni con cui è costruito il Dna urbano, e la città stessa può diventare un corpo intelligente in grado di rispondere ai cambi di umore, alle abitudini, ai pensieri e ai sentimenti dei propri cittadini» ribadisce l’architetto tedesco Michael Bittermann, entrato a far parte del gruppo di ricerca di Oosterhuis. «Se ogni edificio della città diventa una cellula intelligente, emotivamente sensibile, la città stessa diventa un organismo intelligente. Un sofisticato sistema di sensori metropolitani, ad esempio, potrebbe essere in grado di misurare l’opinione pubblica (la città è abbastanza sicura, è pulita, calda, fredda, inquinata?) e reagire di conseguenza. Sarà una città su misura, dove sentirsi a casa e a proprio agio in ogni luogo». Per dimostrare che le tecnologie esistenti sono già in grado di realizzare questo sogno architettonico, il gruppo di lavoro di Oosterhuis ha costruito un modello in occasione della rassegna internazionale di architettura non convenzionale tenutasi al Centre Pompidou di Parigi: si tratta di ”Muscle”, una struttura gonfiabile animata da una serie di 94 muscoli pneumatici, che in parte reagiscono all’effetto delle sollecitazioni ambientali e in parte seguono una programmazione computerizzata. L’oggetto in plastica blu, della dimensione di alcuni metri, si divincola e si ritorce nell’aria grazie alle sollecitazioni captate dalla folla che gli si muove accanto e con la quale tenta un’interazione. Anche William Mitchell, direttore della Scuola di architettura e capo della divisione ”Media Arts and Sciences” del Mit Media Lab di Boston, è convinto che attraverso un progressivo processo di digitalizzazione «gli edifici diventeranno interfacce di computer e le interfacce di computer diventeranno edifici». Le nostre città saranno sempre più elettroniche e ”intelligenti” nella loro natura. Il che però non ci deve portare a immaginare insediamenti abitativi dall’inquietante e freddo look alla ”Blade Runner”. «Al contrario» dice Mitchell «la nuova tecnologia digitale ci sta fornendo piccoli apparecchi portatili connessi via wireless (senza fili) che possono scomparire nelle tasche, così come in una trave di legno. Rispetto alla tecnologia passata, questa non richiede punti di connessione alle linee fisse, cavi, speciali sistemi di illuminazione o di climatizzazione. Fornirà un’altissima funzionalità elettronica ma in maniera del tutto non invasiva». E lo stesso avverrà per vie, piazze, stazioni, parchi cittadini, i quali si ritroveranno racchiusi in una gigantesca sfera elettronica (fatta da ragnatele di fibre ottiche sotterranee e connessioni ad alta velocità senza fili) da cui attingeranno costantemente informazioni e in cui riverseranno gli input raccolti attraverso l’interazione con i cittadini, le auto, l’ambiente circostante. Secondo l’architetto giapponese Toyo Ito, fra i primi a utilizzare in modo estremamente innovativo e originale la tecnologia a fini estetico-costruttivi, i sistemi digitali ci consentiranno di tornare ad abitare in ambienti sempre più naturali e al contempo sempre più mediatico-virtuali. Dice Ito: «Flussi d’acqua e correnti di vento univano l’uomo al mondo. Abbigliamento, edifici e spazi urbani sono stati sviluppati per proteggere le persone dalle asprezze della natura». Ma col tempo si sono trasformati in gusci rigidi che impediscono il contatto vero con il mondo naturale. «Per questo, per poter nuovamente entrare in contatto con la natura, ora fatta tanto di flussi d’aria e di acqua quanto di flussi di bit, dobbiamo avere nuovi rivestimenti. Dovremmo creare anche una ”foresta di media”, canali di comunicazione digitale dove si possa sentire, toccare il flusso di elettroni». Da questo punto di vista la ”Torre di vento” che Ito ha costruito a Yokohama rappresenta già un elemento della città-foresta del futuro. una torre di alluminio, che però riesce a essere totalmente trasparente, cioè aperta alla luce e all’influsso delle condizioni atmosferiche circostanti, grazie al fatto di essere digitalizzata. Nella notte la torre s’illumina, trasformandosi in una magica e dinamica opera traslucida. Un programma informatico, infatti, interpreta i dati rilevati attraverso una serie di sensori dall’ambiente circostante (come i suoni che arrivano dalla strada o la direzione e la potenza del vento) e li trasforma in pattern di luce attraverso 1.280 fonti luminose. «In sostanza, è come essere riusciti a orchestrare la musica dell’ambiente con la luce attraverso un edificio» spiega l’architetto Stefano Mirti, docente presso l’Interaction Design Institute di Ivrea e curatore del libro ”Toyo Ito. Istruzioni per l’uso” (Postmediabooks) sulla vita e le opere dell’architetto giapponese. Ritornando a Mitchell – anche lui, così come Oosterhuis, Bittermann, Ito e tanti altri – non si limita solo a teorizzare la sua città futura ma prova anche a capire come realizzarla. Per questo ha messo in piedi un progetto come ”Placelab”: «Un appartamento situato in un vero condominio a Cambridge che, grazie ai sensori di cui è disseminato, ci sta permettendo di comprendere, attraverso i comportamenti degli occupanti e la loro interazione con le tecnologie presenti, quali possano essere le esigenze e i bisogni quotidiani di una famiglia del domani». Così da costruire case che reagiscono, ad esempio attivando il sistema di aria condizionata se percepiscono che i loro occupanti hanno caldo, o aprendo la porta d’ingresso ad amici e parenti che sono stati preventivamente ”riconosciuti” dai loro sistemi di sicurezza biometrici. Il francese Michel Parent, dell’Inria (l’Istituto nazionale di ricerche), è invece convinto che nel giro di dieci-vent’anni saranno plotoni di automobili-robot, senza conducente in carne e ossa, il mezzo di trasporto più comune nelle grandi metropoli del pianeta. Si tratterà in sostanza di ”veicoli pubblici a uso individuale” (cioè di cyber-taxi da utilizzare quando e quanto se ne ha bisogno, rinunciando però alla proprietà personale del veicolo). Ancora più ”spinto” su come potrebbero presentarsi le nostre città da qui a trent’anni è il gruppo interdisciplinare di ricerca e progettazione raccolto dallo studioso Jacques Fresco sotto il cappello del Venus Project, un nome di per sé evocativo – Venus, Venere – di un mondo interstellare e di civiltà future. Partendo dai più pressanti quesiti della società attuale: «Come produrremo la nostra energia? Come sfrutteremo in modo intelligente ed eco-compatibile le risorse del pianeta? Come e dove abiteremo da qui a venti, trent’anni e, soprattutto, quali saranno i gusti estetici e di consumo dei futuri abitanti della Terra?». Per rispondere a queste domande, strettamente correlate l’una all’altra, Fresco ha aperto un centro ricerche e design in Florida, il Venus Research Center, nell’omonima cittadina, Venus. Ed è qui che ha deciso di ospitare architetti, ingegneri, sociologi, urbanisti e designer interessati a studiare e definire i possibili parametri di nuovi modi di vivere e abitare, arrivando a mettere a punto un modello sperimentale di cyber-città circolare, con innovativi mezzi di trasporto, di produzione e di gestione delle risorse energetiche. Molti degli insediamenti abitativi del Venus Project sono studiati per svilupparsi lungo le coste o addirittura sulla superficie del mare, in isole artificiali. Grazie a innovativi materiali sintetici, flessibili e al contempo resistenti, nuove strutture in titanio o in cemento rinforzato e rivestimenti in ceramica malleabile (ignifuga e praticamente insensibile all’azione degli agenti atmosferici), le abitazioni di nuova generazione potranno adottare fogge finora inimmaginabili: con linee bombate, ovoidali, o slanciate verso l’alto. Molte richiamano le linee di fantasiose navi spaziali o copiano architetture create dalla natura, come gusci di conchiglia o nidi trasparenti. E che le città galleggianti a filo d’acqua non siano fantascienza ma scienza tecnologica applicabile all’oggi lo dimostra per esempio un progetto come quello avviato dall’architetto francese Jean-Philippe Zoppini, che sta costruendo nelle acque del Golfo di Oman una cittadella residenziale (con un albergo subacqueo) appoggiata su un’isola flottante. Ma c’è un altro ”architetto del mare” che si spinge ancora oltre nella sua vision, immaginando interi insediamenti abitativi non a pelo d’acqua ma addirittura nelle profondità oceaniche. Stiamo parlando di Jacques Rougerie, il progettista-oceanografo francese che ha già ideato alcune delle più avveniristiche soluzioni per gli ”acquanauti” del futuro prossimo. Come ad esempio ”Aquabule”, un laboratorio in fondo al mare presso l’isola di Zembier, vicino a Tolone, o ”Aqualab”, una casa sottomarina realizzata al largo di Okinawa, in Giappone. «Ho avuto la fortuna di poter provare cosa significa soggiornare a venti metri di profondità. Vivere là sotto per almeno 24 ore è qualcosa che lascia il segno». Per questo Rougerie è sicuro che le dimore e gli alberghi sotto il mare diventeranno oasi molto ricercate da qui a pochi anni. «Ormai sono stati creati policarbonati molto resistenti da impiegare per le parti trasparenti», spiega l’architetto francese, «mentre per le strutture portanti si possono ora utilizzare leghe al titanio, materiali in alluminio e fibre di vetro. E poi, grazie alle nuove tecnologie di comunicazione wireless e satellitari, si potrà rimanere sempre connessi e navigare su Internet, anche in mezzo o in fondo al mare». Arianna Dagnino