Varie, 22 aprile 2004
SANVITALE Francesca
SANVITALE Francesca Milano 17 maggio 1928, Roma 9 febbraio 2011. Scrittrice • «Romanziera capace di affondare il coltello nella piaga di rapporti sofferti, come in Madre e figlia, che l’ha portata al successo negli anni Ottanta, o come nell’Uomo del parco, La realtà è un dono, o nel romanzo storico Il figlio dell’impero, dedicato alla breve vita del figlio di Napoleone Bonaparte, [...] nei suoi libri tiene sullo sfondo tre città: Parma, dove affondano le radici familiari, Milano, dove è nata, e Firenze che è la città della guerra e dell’adolescenza. Una triangolazione speciale, non solo geografica bensì intellettuale. Ma la scrittrice riconosce che il “suo luogo” della vocazione al racconto è soprattutto Firenze: il luogo d’elezione dei poeti ermetici, la roccaforte della letteratura degli Anni Quaranta, l’ambiente della prosa d’arte, e delle disquisizioni stimolanti ma anche soffocanti. [...] Sono arrivata a Firenze da sola con mia madre. Mio padre ufficiale di cavalleria era lontano e quando la linea gotica ha tagliato in due l’Italia e ci ha definitivamente separati non era più in grado di sostenerci economicamente. Vivevamo in maniera precaria [...] Il primo approccio con la città è stato quello di un allegro nomadismo. Insediate in un elegante albergo, con mia madre siamo finite in modeste pensioncine. Poi abbiamo trovato l’appartamento che desideravamo. Intanto la guerra ci impoveriva. Abbiamo impegnato tutto quello che avevamo. Dar via la bicicletta, è stata la sofferenza maggiore [...] Andavo a Piazzale Michelangelo, da sola a leggere i miei autori preferiti, Rilke e Montale. Ecco le basi della mia vita. E poi ero una vera ribelle. Richieste non straordinarie, ma insolite per una ragazza dei miei tempi. Volevo stare con gli amici, andare al cinema, al teatro, fare le tre di notte, passare le serate a discutere [...] Negli anni in camicia nera io e il mio gruppetto di coetanei non ci potevamo definire antifascisti ma non amavamo il conflitto in atto, il nazismo, le parate con i gagliardetti. Non lo sapevamo ma rischiavamo molto. Alle chiacchiere da muretto, che facevamo fino a tardi sulle rive del Mugnone, sotto la mia casa fiorentina che aveva una bellissima vista su Fiesole, si univano altri ragazzi. Uno in particolare era un personaggio ambiguo. Solo dopo ne abbiamo conosciuto la vera identità di spia [...] All’università diventai allieva di Giuseppe De Robertis che, allora, per i giovani era un vero nume tutelare. Frequentavo poeti come Alfonso Gatto e Mario Luzi, critici come Leone Piccioni, romanzieri come Pratolini che conobbi lavorando alla Vallecchi, casa editrice di Metello. E poi c’era Bilenchi che dal 1948 al 1956 diresse Il Nuovo Corriere ed ebbe un impatto fortissimo sulla città [...] Ero una free lance e collaboravo, tra l’altro, anche al Ponte di Piero Calamandrei. Mi consideravo vicina agli azionisti. Avevo parecchie divergenze di opinioni con gli amici comunisti. Con lo studioso Delio Cantimori, per esempio, che continuamente mi sollecitava verso altre scelte. Mi diceva come fosse inutile far parte di un piccolo gruppo. Meglio unire i propri destini a quelli della classe operaia. Ma io dal partito di Togliatti ero intimorita. Troppo rigido. Mi ricordo, per esempio, quanti giovani rinunciarono a laurearsi quando arrivò l’ordine di partito che i borghesi laureati non erano graditi nelle file con falce e martello [...] Nel giro di pochi giorni ho deciso che dovevo lasciare Firenze. Ho pensato alla mia città natale, Milano, dove si delineava la possibilità di un’occupazione giornalistica a Tempo illustrato”» (Mirella Serri, “La Stampa” 3/8/2004) • «Il primo romanzo Il cuore borghese l’ho scritto in sette anni. Il secondo Madre e figlia in nove mesi. Ciò che auspico, tutte le volte che comincio, è che sia breve, lineare come un bagaglio leggero, una valigia con le rotelle da portare appresso. Poi com’è successo tante volte il racconto e gli interessi che stanno dentro la storia si moltiplicano, così posso arrivare alle seicento pagine del Figlio dell’Impero, ma spero che non accada più [...] Tra una cattedreale e una chiesetta la differenza non sta nella qualità, ma nello sforzo costruttivo [...] scrivo libri ma non so se il mio messaggio arriva al pubblico. Mi sento dire che scrivo in modo difficile invece penso di essere molto chiara [...] Leggo i giornali, libri di narrativa, poesia e saggi. A volte mi appassiono fino in fondo, altre faccio fatica ma non riesco ad abbandonare un libro, mi sembra di mancare di rispetto all’autore. Per me è una gioia grande scoprire un libro che mi piace di un altro narratore. È la riprova che il mio pessimismo può vacillare» (Alain Elkann, “La Stampa” 10/4/2004).