20 aprile 2004
Tags : John. Carew
Carew John
• Nato a Lorenskog (Norvegia) il 5 settembre 1979. Calciatore. Lanciato dal Rosenborg, consacrato dal Valencia, nel 2003/2004 alla Roma. «Cresciuto a Lorenskog, sobborgo di Oslo, figlio di mamma norvegese e papà gambiano, occhi verdi, pelle scura, splendido simbolo della multietnia, alla faccia dei nazionalismi e dei razzismi. Talento precoce del calcio, sprinter per hobby - scelta quasi stravagante per un ragazzone di centonovantacinque centimetri di altezza - grande fisico, sorriso largo, Carew a fine anni Novanta sembrava il nuovo spaccareti del football mondiale. Vialli gli pronosticò un gran futuro, la Juventus lo inserì tra i suoi obiettivi, il Rosenborg si faceva bello grazie ai suoi gol (18 in 17 partite). Alla fine, sbarcò a Valencia e laggiù, al sole di Spagna, dopo una prima stagione a buoni livelli, accadde qualcosa che bloccò la sua crescita. Gli capitò quel qualcosa che attraversa talvolta la strada dei centravanti di razza: cerchi la porta e non la trovi. Il gol non arriva e diventa la tua ossessione. Un incubo. Quindici partite e appena uno straccio di gol, una vitaccia. Passata la stagione horribilis, nel 2002-2003 un buon recupero, con otto reti in campionato e qualche lampo in Champions League, ma anche i problemi di rapporto con l’allenatore, Rafa Benitez e allora, conseguenza naturale di questa situazione, il trasferimento. Destinazione Roma, alla corte di Capello, dove arrivò sulla scia di un litigio con un compagno di nazionale, Riise, al quale aveva rifilato per risposta ad un insulto razzista un bel gancio da boxeur e subito si disse ”vuoi vedere che è arrivato un piantagrane?”. Errore. Roma è stata un un incanto per John, sin dal primo approccio. E il gol, su rigore, nella gara di esordio, avversario il Brescia. E poi una rete festeggiata mollando un calcione a un bidone di plastica pieno d’acqua, abbattuto neppure fosse stato un semplice secchio. E un altro gol celebrato sollevando un raccattapalle e con un tenero bacio in fronte. E la simpatia del pubblico romano. E una città che sembrava averlo adottato. Una corsa in discesa, così sembrava, quella di John. Un gol in coppa Uefa, un altro al Milan in coppa Italia e la soddisfazione di essere entrato nei tabellini dei tre tornei della stagione romanista. Poi, gennaio. La metamorfosi. Due gare con il fiatone: Udinese e Brescia. Trentasette minuti con i friulani e via sotto la doccia per l’influenza, poi 63 minuti a Brescia e le gambe molli. Risultato: panchina» (Stefano Boldrini, ”La Gazzetta dello Sport” 13/4/2004).