18 aprile 2004
CRESCI Mario.
CRESCI Mario. Nato a Chiavari (Genova) il 26 febbraio 1942. Fotografo. «’La fotografia? un continuo modo di raccontare bugie”.Così Mario Cresci (’sono un ligure di mare”) [...] una lunga carriera a sperimentare i linguaggi dell’immagine, spiega la ”filosofia” del suo lavoro. Un lavoro che lo portò nel ’68, fresco di studi di design, a scendere in Lucania: ”Tra i miei insegnanti, a Venezia, c’era allora un urbanista che si chiamava Aldo Musacchio, fu lui a convincere me e un gruppo di giovani architetti e sociologi a conoscere la realtà del Sud”.Un Sud fatto allora di povertà e sottosviluppo, ma anche di una civiltà contadina, che con i suoi miti e la sua cultura aveva affascinato intellettuali come Carlo Levi o Ernesto De Martino. ”La fotografia era per me un modo per far comprendere la realtà, le case, gli oggetti, le persone, mai però con lo spirito di chi fa un reportage”.[...] una sequenza di fotogrammi degli anni 70, con l’immagine di un maiale (animale che nella cultura contadina lucana occupava un posto fondamentale) che diventa quasi un’ombra, una macchia: ”Mi interrogavo allora, come faccio ancora adesso, sul linguaggio della fotografia, mi sembrava che avesse molto a che fare con quello dell’arte contemporanea”.Di quegli anni di entusiasmi e di vitalità ci sono anche le testimonianze dei periodi trascorsi a Parigi o a Roma, con gli scontri di Valle Giulia (’Mi piace pensarla quasi come una Pietà”, dice mostrando i fotogrammi di due ragazzi, che si sostengono fuggendo dagli scontri con la polizia) e l’installazione, quasi un omaggio a Manzoni, alla Galleria il Diaframma. ”Tra i miei amici di allora c’era Pino Pascali e conservo ancora le foto di quando alla galleria Coccia scesero quelli dell’Arte Povera: c’erano Merz e Zorio, Paolini e Nespolo, e Pistoletto faceva allora teatro di strada”.Poi il trasferimento a Matera: ci rimarrà più di vent’anni, metterà su casa e studio, insegnerà grafica, design e fotografia a generazioni di giovani lucani. ”Le forme, i luoghi, la memoria, il tempo: sono questi gli elementi su cui ho cercato di sperimentare”, dice. E vedi la serie della Geometria non euclidea o le immagini dei Sassi che assumono forma di trapezio e si perdono in una pellicola nera. Poi la serie dei ritratti scattati durante le assemblee per il piano regolatore di Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro, con quei volti pieni di fierezza, che sceglie di rendere ”mossi”.C’è la serie, splendida, dei Ritratti reali, del ’72: famiglie contadine fotografate in casa, che mostrano le immagini dei loro avi o dei parenti emigrati in America. Sono trittici in cui emerge prima la stanza, poi le persone, poi le foto ”antiche” sul pavimento: ”Non era facile, perché dovevi superare la diffidenza di molti a farsi fotografare, ma era anche un modo per parlare con le persone, per sentire le loro storie”.Si comprende, vedendo queste immagini, o quelle più recenti, in cui Cresci ha deciso di ristampare ciò che dell’esperienza lucana degli anni 70 riaffiorava alla sua memoria, la differenza tra i risultati di chi fa un viaggio al Sud, si emoziona e magari realizza un ”bel” reportage e chi in un posto sceglie di vivere e di lavorare e riesce a coniugare la punte alte di una cultura dell’immagine (’tra i miei riferimenti metto Man Ray e Duchamp”) con l’esperienza di un luogo dimenticato dagli uomini e da Dio. Un luogo dove magia e fantasmi hanno (avevano) importanza, e un po’ di quella magia o di quei fantasmi te li ritrovi in certi ”autoritratti”, in cui del fotografo che scatta rimane un’ombra impressa su una poltrona. Una riflessione sul ”guardare” è la fotografia che campeggia nel manifesto della mostra: una donna anziana che osserva il Campo dei Miracoli a Pisa, dietro una staccionata (’Mi divertiva l’idea di me che guardavo lei che guardava attraverso una sorta di buco della serratura uno dei luoghi più visti del mondo”). E proprio questa capacità di interrogarsi sul fare fotografia, considerandola come un ”progetto” e non come una semplice documentazione del reale, diventa la cifra del lavoro di Cresci. ”Non importa quale linguaggio usi - fotografia, design, letteratura - l’importante è studiarne le possibilità”, dice. [...] ”Al Sud a un certo punto non si riusciva più a lavorare”.Negli anni 90 Cresci dirige l’Accademia Carrara: ”In quel periodo ho pensato a un’installazione con le statue che avevamo. Le ho portate in un teatro, le ho dipinte di vernice fosforescente e le ho riprese alla luce della lampada di Wood”.Il risultato diventa quasi un omaggio a Giulio Paolini: ci sono busti e statue classiche che sembrano volare nel buio. Rarefatte sono le ultime tappe, questa volta a colori e con interventi di tecnologie digitali in fase di stampa. Un ritorno a Matera con la serie delle cave di tufo, immagini fatte di pochi segni, quasi impronte e tracce su una superficie lunare: ” come se sentissi adesso il bisogno di silenzio: ci sono in circolazione troppe immagini che urlano”.C’è una serie realizzata in un cascinale vicino a Verona che rende ”il colore della memoria”: stanze vuote, pavimenti, vasche da bagno, attrezzi contadini, in cui indovini l’assenza delle persone che lì hanno vissuto. E poi il finale con La casa di Annita: ”Mentre traslocavamo la mia compagna ha ritrovato oggetti che erano appartenuti ai suoi nonni. Li ho fotografati sulle piastrelle del pavimento di casa”.E un cappello, un cravattino, una piuma, una borsetta, riescono a darti l’emozione dei frammenti di un tempo e di persone che non ci sono più. Gli oggetti sono accostati grazie alla tecnologia digitale: ogni immagine sembra ”vera” e invece è una ”bugia”» (Rocco Moliterni, ”La Stampa” 6/4/2004).