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 2004  aprile 11 Domenica calendario

Era mattina presto quando la carrozza del commendator Bernardo Tanlongo si fermò in via della Pigna 13, davanti agli uffici della sua banca

Era mattina presto quando la carrozza del commendator Bernardo Tanlongo si fermò in via della Pigna 13, davanti agli uffici della sua banca. La Banca Romana. Il governatore scese: era un uomo basso, piuttosto grossolano, il viso rosso e asimmetrico, la parlata marcatamente dialettale che ricordava certi personaggi del Belli ("io farebbe", "che dichi?"), un "romano de Roma" da acquarello. Famose in città la sua mimica esagerata, lo strabuzzar degli occhi, la voce roca, Tanlongo era un semianalfabeta, ma furbo e capace di intuire all’istante i punti deboli di ognuno e sfruttarli a proprio vantaggio. Era il rampollo, se così si può dire, d’una famiglia di mercanti di campagna inurbati, da cui aveva ereditato la passione per le giacche larghe e pelose, i pantaloni a colonna e la catena d’oro a festone che gli inghirlandava la pancia rotonda. Gli era rimasto pure l’amore per il cibo genuino e abbondante: sembra di vederlo, sui colli albani, rubizzo, lo sguardo soddisfatto davanti ai resti di montagne di spaghetti, piatti d’abbacchio, carciofi alla giudia, caciocavallo e un paio di bottiglie vuote di rosso di Grottaferrata. Quando lo incontriamo ha 73 anni, una moglie che aveva sposato giovanissimo e trentuno tra figli, nuore, cognati e nipoti. Una famiglia d’altri tempi anche per la fine dell’800 e il vecchio Bernardo, con la sollecitudine tipica dei popolani all’antica, provvede a tutti: per i morti fa costruire una sontuosa tomba al Verano, per i vivi predispone una sorta d’amministrazione centrale domestica che s’occupa di tutto, dalla spesa al mercato al vestitino dei bimbi. Il burino inurbato Tanlongo aveva scalato tutti i gradi della scala sociale:aveva cominciato come lenone di monsignori, assurgendo successivamente al ruolo di spia della polizia papalina; nel 1880, un anno prima di diventare governatore, poteva vantare un patrimonio di ”parecchi milioni”, passati rapporti d’affari con Cavour e presenti con la Casa Reale. Questo era Tanlongo, e anche di più dacché s’era fatto banchiere, quando poco dopo l’alba del 19 gennaio 1893, un giovedì grigio e piovoso, entrò con passo lentissimo nella sua Banca Romana. A quell’ora, in ufficio, trovò qualche impiegato e una sorpresa forse annunciata: quattro poliziotti con un mandato di cattura. Era per lui. Il governatore veniva arrestato per le incredibili irregolarità nella gestione dell’istituto accertate da un’inchiesta ministeriale. Protestò, con alterigia, che essendo senatore (la nomina firmata dal re risaliva a poco più d’un mese prima), la magistratura ordinaria non aveva potere su di lui e per arrestarlo occorreva un’autorizzazione dell’Alta Corte di Giustizia. Gli agenti misero a verbale l’opposizione ma non le diedero peso, lo fecero salire in carrozza e lo portarono a casa sua, in via Cairoli. Tanlongo, a quel punto, aveva già perso la sua baldanza, s’accasciò su una sedia mezzo svenuto e lasciò fare. Gli agenti iniziarono la perquisizione. Nelle stesse ore finiva agli arresti anche il cassiere della banca, Cesare Lazzaroni. Lo scandalo che ne seguì fu enorme e sconvolse l’Italia per un anno intero. Quando passò sul campo rimasero un governo, innumerevoli carriere politiche e ministeriali e almeno un morto: il deputato Rocco De Zerbi, il cui cuore cedette il 20 gennaio alla notizia che il suo nome era stato trovato nella lista - infinita - dei politici pagati da Tanlongo. L’opinione pubblica poté ammirare un panorama desolante di corruzione che toccava tutti i settori della vita associata: la politica, l’impresa, la burocrazia, il giornalismo e, soprattutto, le banche. Per capire la situazione bisogna spiegare alcune cose. Il sistema bancario della neonata Italia era incredibilmente complicato: il nuovo Stato, al momento d’assorbire quelli preesistenti, s’era ritrovato con sei banche autorizzate a stampare soldi. A Roma c’erano la Banca Nazionale e la Banca Romana (ex Banca dello stato Pontificio); a Firenze la Banca Nazionale di Credito e la Banca Nazionale Toscana; al sud il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Questo bailamme era stato più o meno regolato nel 1874 con una legge che fissava limiti alla circolazione di banconote, limiti che però venivano superati spesso e volentieri da tutti gli istituti. Certo, sei banche che battevano moneta erano troppe, ma all’unificazione s’opponevano un’infinità di interessi locali. Ogni banca era per di più in feroce concorrenza con le altre grazie all’infernale meccanismo della riscontrata: gli istituti erano obbligati ad accettare i soldi stampati dalle altre banche, ma ogni 10 giorni potevano farseli cambiare con biglietti propri. Insomma, una sorta di compensazione dalla quale usciva rafforzata la banca il cui denaro avesse maggiore circolazione, cioè la Nazionale di Roma, mentre le minori ricorrevano ad espedienti al limite della legalità tentando di far circolare i propri soldi nel maggior numero di province. Tutto questo movimento era controllato - si fa per dire - dal ministero dell’Agricoltura, essendo storicamente il credito agricolo la principale attività delle banche. Narra la leggenda che, quando nel 1881 Tanlongo accettò la nomina a governatore della Banca Romana, i suoi familiari sparsero amare lacrime, presagendo future disgrazie. Di certo c’è che l’istituto era già in pessime condizioni, con una circolazione eccessiva e crediti spesso inesigibili. I motivi, come sempre, erano molteplici. L’economia italiana in quel periodo non se la passava bene, colpa di una pessima congiuntura mondiale e d’una guerra commerciale con la Francia. Roma, in particolare, dopo l’annessione al Regno d’Italia (1871) aveva conosciuto uno sviluppo impetuoso: migliaia di torinesi erano arrivati al seguito della nuova amministrazione statale, poi era giunta la Corte e appresso tutti gli altri: avventurieri, artisti, giornalisti, delinquenti, spesso senza limiti netti tra le varie qualifiche. In vent’anni la popolazione era raddoppiata: a Roma nel 1892 vivevano 400 mila persone. C’era stato bisogno di case e s’era costruito ovunque: negli anni Ottanta vide la luce tutto il quartiere dell’Esquilino, un pezzo di Torino esportato a Roma per confortare gli impiegati sabaudi. Gli speculatori innalzavano palazzi senza nessuna regola: dubbie fortune nascevano e morivano nel corso di qualche anno. A un certo punto, però, tutto era finito: non si costruiva più, la fame di case era un ricordo del passato. Al centro di buona parte di questi movimenti convulsi c’era la Banca Romana. Tanlongo, fin dall’inizio, s’era buttato a capofitto in questo vortice edilizio e nell’acquisto della compiacenza di uomini politici e giornalisti per cifre a volte ragguardevoli (e per di più senza ottenere i favori sperati). Ma il burattinaio, a un certo punto, si scoprì marionetta: Tanlongo in quegli anni era stato costretto a impelagarsi in una serie di salvataggi industriali e finanziari che avevano minato le casse della Banca, già provate dalle spese di rappresentanza e dai crediti concessi senza garanzie agli amici e agli amici degli amici. Banca Romana era stata chiamata dalla classe politica a salvare la società di costruzioni Esquilino, la Banca Tiberina, la Banca Sconti e Sete. Sempre con perdite clamorose. Sta di fatto che le voci sulla cattiva amministrazione dell’ex istituto pontificio si rincorrevano ormai da qualche anno, quando l’ispezione condotta dal senatore Alvisi e dal funzionario del Tesoro Biagini scoperchiò per la prima volta il baratro creato da Tanlongo. Era il 1889 e Biagini, che materialmente condusse i controlli schivando una serie di tentativi di corruzione, rimase allibito: nella cassa mancavano oltre 9 milioni di lire e, per rimediare alla situazione, Tanlongo aveva fatto stampare 9 milioni e 50 mila lire clandestinamente, cioè senza l’autorizzazione del governo. Anche qui conviene chiarire come fosse possibile stampare soldi senza che il governo o qualcun altro se ne accorgesse. Il fatto è che l’operazione era interamente sotto il controllo della banca, anzi del Governatore e del Cassiere. La Banca Romana faceva produrre le sue banconote da una casa londinese, la H. C. Saunders & Co, che al momento di stampare ritirava i calchi dal consolato italiano in Gran Bretagna e poi spediva i soldi via nave in Italia. La relazione Alvisi-Biagini fu immediatamente consegnata al ministro dell’Agricoltura Miceli, che ne parlò in Consiglio dei ministri al capo del governo, Francesco Crispi, e alla presenza del ministro del Tesoro, un piemontese in grande ascesa, Giovanni Giolitti. Incredibilmente l’inchiesta fu insabbiata e non se ne seppe più nulla fino al 20 dicembre di tre anni dopo, quando Napoleone Colajanni, in una incandescente seduta della Camera, la fece conoscere al Parlamento e alla stampa, attaccando senza tregua il governo appena uscito vincitore dalle elezioni, il primo a guida Giolitti, e innescando un’indagine della magistratura. Il primo ministro, dopo qualche tentennamento, all’inizio di gennaio istituì una commissione d’inchiesta ministeriale guidata dall’integerrimo senatore Finali. Nei conti della Banca Romana s’era aperta una voragine: 28 milioni di lire di vuoto di cassa garantito da falsi crediti firmati per lo più da nullatenenti; banconote per 70 milioni che circolavano abusivamente (il limite per Banca Romana era di 75 milioni); 41 milioni di lire di biglietti doppi, cioè falsi. Quest’ultima voce era la più pazzesca: Tanlongo e Lazzaroni, tra il 1890 e il ’92, avevano ordinato la creazione di banconote con serie già stampate e messe in circolazione vent’anni prima. Il sor Bernardo si difese sostenendo d’aver voluto sostituire le banconote usurate: quei soldi in realtà erano destinati a coprire i vuoti di cassa: sfortunatamente per lui, però, i biglietti erano circolati e tre impiegati, accortisi della truffa, lo avevano costretto a bruciarli quasi tutti prima dell’ispezione Finali. Il 24 gennaio inizia il piccolo calvario di Bernardo Tanlongo: gli arresti domiciliari di cui aveva goduto per quattro giorni vennero revocati. Il governatore decise d’andare in carcere col suo coupé a due cavalli, alla mezza, scortato da sette tra poliziotti e carabinieri. Lungo la strada, due ali di folla fischiavano, davano pugni sulla carrozza rallentandone il passo e gridavano: ”Abbasso i ladri”. Alle 14 e 15 Bernardo Tanlongo, rendigote, cappello a cilindro e bastone, entra nella sua cella al secondo piano di Regina Coeli: è riscaldata e gli hanno concesso di tenersi qualche mobile. Fin dai primi giorni dell’inchiesta la stampa si scatenò pubblicando a puntate verbali teoricamente coperti dal segreto istruttorio. Nel tritacarne finirono tutti: da quelli che avevano preso soldi o raccomandato qualcuno perché ne ottenesse, a chi aveva semplicemente firmato cambiali che dovevano ancora essere saldate. In sottofondo una sorda battaglia tra Crispi e Giolitti - col sor Bernardo che dal carcere appoggiava ora l’uno ora l’altro - che inizialmente vide vincere il primo. In marzo, partì un’inchiesta parlamentare, la cosiddetta Commissione dei Sette, che a novembre pubblicò una dettagliatissima relazione finale in cui parecchi parlamentari erano ”rilevati”, ”disapprovati” o ”deplorati” per i loro rapporti con Tanlongo e soci. Tra questi Giovanni Giolitti, accusato d’aver intascato 100 mila lire in due tranche per le spese elettorali del ’92, soldi poi restituiti a scandalo già scoppiato. Il piemontese si dimise il 24 novembre insultato dalla Camera: a capo dell’esecutivo tornò Crispi. Ma la vendetta arrivò: quasi un anno dopo, Giolitti scese le scale della Camera e consegnò al presidente dell’assemblea ”il Plico”, ovvero le carte che provavano i rapporti del primo ministro siciliano con la Banca Romana. Crispi aveva raccomandato due suoi parenti poco raccomandabili, i fratelli Di Chiara, per tre cambiali. Risultò pure che sua moglie, donna Lina, aveva rapporti finanziari assai stretti con Tanlongo. Crispi reagì malissimo e fece accusare Giolitti di sottrazione di documenti per la gestione dell’inchiesta sulla Romana: in particolare l’accusa riguardò certe carte sparite proprio il 19 gennaio 1893 dopo la prima perquisizione a casa Tanlongo (probabilmente quelle che saltarono fuori nel ”Plico”). Il piemontese, onde evitare guai peggiori, se andò per qualche tempo dalla figlia maggiore Enrichetta, che stava in Germania. Che cosa resta della storia di Tanlongo? La Banca Romana fu liquidata dalla neonata Banca d’Italia, fondata nel 1893 dalla fusione della Nazionale di Roma e dei due istituti toscani (fino al 1936 il Banco di Napoli e quello di Sicilia conservarono un limitato potere di stampare). Il sor Bernardo e il cassiere Lazzaroni finirono incredibilmente assolti, anzi non vennero nemmeno rinviati a giudizio per un banale errore procedurale: per loro il processo finì definitivamente il 28 ottobre 1893, quando la Corte di Cassazione confermò il ”non luogo a procedere”. Crispi rimase al potere fino al ’96 e fu abbattuto dai ben armati ”barbari” di Menelik. Giolitti tornò, eccome, e per vent’anni fece il bello e il cattivo tempo nella vita italiana. Di Bernardo Tanlongo si ricorda ancora l’anagramma con cui divenne famoso sui giornali dell’epoca: ”Gran ladro ben noto”. marco palombi