Marco Burini, Macchina del Tempo, aprile 2004 (n.4), 14 aprile 2004
Con frequenza disarmante il caso Gesù di Nazareth si affaccia alla soglia dei mass media, in genere per un film, un quadro o un libro, comunque una performance, che oggi, passati ormai duemila anni dalla sua breve vicenda terrena, vira spesso sui toni della trasgressione
Con frequenza disarmante il caso Gesù di Nazareth si affaccia alla soglia dei mass media, in genere per un film, un quadro o un libro, comunque una performance, che oggi, passati ormai duemila anni dalla sua breve vicenda terrena, vira spesso sui toni della trasgressione. Non sfugge alla regola l’americano Dan Brown, prolifico scrittore di best seller che nella sua ultima impresa, ”The da Vinci Code” (’Il codice da Vinci”, Mondadori, 15,81 euro), si inventa un thriller in cui la caccia al Santo Graal diventa l’occasione per riscrivere addirittura la storia del Cristianesimo, ripescando a piene mani nella letteratura alternativa che da sempre accompagna quella ufficiale. Mettendo da parte qualunque giudizio estetico sull’opera di Brown, forse vale la pena, in questi giorni in cui la Chiesa celebra la Pasqua, riprendere in mano il dossier Gesù per fare il punto della situazione. Le domande da cui partire sono poche ma estremamente impegnative e mai del tutto appagate: chi è Gesù di Nazareth? Soltanto un grande personaggio storico, o addirittura il figlio di Dio risorto, come affermano i cristiani? Si è sposato con Maria Maddalena che gli ha dato dei figli, come scrive Dan Brown, oppure ha scelto il celibato per il Regno dei cieli? La sua vita si è conclusa con il supplizio della crocifissione oppure è ricominciata, in maniera tanto misteriosa quanto trionfale, tre giorni dopo la sepoltura? Ma soprattutto, che cos’è la resurrezione di Gesù? Se ne può parlare da un punto di vista scientifico? una caratteristica propria della religione cristiana o presenta delle analogie con altri culti? Secondo lo storico Lucien Cerfaux, il Cristianesimo «è nato due volte»: prima dalla vicenda del Gesù terreno e poi dall’annuncio della sua resurrezione. Questo spiega la sua doppia identità, storica e mistica. Se la prima può essere indagata dalle scienze umane, la seconda sconfina in un territorio in cui certi strumenti non funzionano più. Per conoscere Gesù Cristo, bisogna consultare le fonti che parlano di lui. Infatti, oltre alla conoscenza che se ne può avere interpellando e osservando i suoi discepoli di oggi, c’è un insieme di documenti antichi, alcuni dei quali redatti pochi anni dopo la sua morte, che consentono di conoscere i tratti salienti della sua vicenda storica e il modo in cui è stata raccontata dai suoi seguaci. D’altronde, anche le poche ma interessanti testimonianze di autori pagani dell’epoca, ad esempio Plinio il Giovane, Tacito, Svetonio, oltre a quella dello storico giudeo-romano Giuseppe Flavio (37-103 d.C.) parlano di Gesù, indotte proprio dalla curiosità per il comportamento dei cristiani. In ogni caso, la gran parte delle notizie viene dai vangeli (canonici e apocrifi) e più in generale da quel corpo di testi che in seguito verrà chiamato Nuovo Testamento. Tali documenti non hanno mai voluto fare una mera biografia di Gesù, ma hanno cominciato subito a elaborare una cristologia, cioè a interrogarsi sul significato della sua esistenza: «Ma chi è costui?» è una domanda che si trova molto spesso nei vangeli. Infatti, non è più sostenibile la posizione di chi, sulla scia del teologo tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976), ritiene che la vita di Gesù di Nazareth sia una cosa di cui sappiamo poco o niente e che comunque non ha niente a che fare con la fede nel Cristo. In realtà, il personaggio storico chiamato Gesù e il Cristo annunciato come il Messia risorto da parte della Chiesa sono inseparabili. La predicazione in Galilea e la resurrezione a Gerusalemme sono perciò i due inizi del Cristianesimo. Il nome Yeshua (’Dio salva”) era all’epoca molto comune in Palestina. Lo ebbe anche il figlio di un falegname di Nazareth, che nacque tra il 7 e il 4 avanti Cristo (il calendario attuale si basa sull’errata datazione della sua nascita, a opera del monaco Dionigi il Piccolo nel 525). La sua vita fu breve e trascorse quasi tutta nell’anonimato nella cittadina della Galilea, regione a nord di Gerusalemme, non lontana dal lago di Genezareth. Verso i trent’anni avvenne la svolta: i villaggi della zona divennero il teatro della sua predicazione da rabbi itinerante. Un’attività più simile a quella dei filosofi cinici, che percorrevano le città dell’impero, piuttosto che dai maestri della Torah, la Legge. Uno sradicato attorno al quale si riunì una comunità di uomini e donne che gli andavano dietro attratti dai suoi discorsi, spesso presentati in forma di parabola, e dai suoi gesti di guarigione ed esorcismo (ovvero i miracoli). La sua vita, sempre in bilico tra continuità e innovazione rispetto alla tradizione ebraica, fu interrotta bruscamente da una condanna a morte per crocifissione, decretata dal procuratore romano della Giudea Ponzio Pilato, intervenuto su sollecitazione dei notabili del luogo tra il 28 e il 33 dopo Cristo. Peraltro Gesù stesso aveva intuito di poter fare una brutta fine, dato che si era messo contro i due gruppi che dominavano la società giudaica del tempo: i farisei, per la sua libertà nei confronti della Legge, e soprattutto i sadducei, per il suo atteggiamento verso il Tempio. E poi c’era il precedente a lui ben noto di Giovanni il Battista, il profeta scomodo eliminato qualche anno prima da Erode Antipa. Gesù scelse il celibato, una forma di vita non certo sconosciuta nel mondo ebraico del tempo (lo praticavano alcuni tra gli esseni, a Qumran), ma ebbe nei confronti delle donne un atteggiamento dirompente rispetto al costume dell’epoca. «Questo è quanto dice quel distillato austero che sono i vangeli canonici. Gli apocrifi sono molto più generosi» osserva Marinella Perroni, docente di Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Allora l’ipotesi avanzata nel libro di Brown che Gesù avesse sposato Maria Maddalena è solo una leggenda? «Nei vangeli» prosegue Perroni «ci sono dei conti che non tornano e che a volte cerchiamo di far tornare leggendariamente. D’altra parte il fiorire di leggende attorno alla vita di Gesù, fenomeno peraltro antichissimo, segnala il bisogno di recuperare una realtà che va oltre la tradizione codificata». Comunque, dal punto di vista storico, «è assodata l’appartenenza di donne al gruppo dei primi discepoli di Gesù. Come è altrettanto chiaro che la comunità cristiana, man mano che si radicava nel tessuto urbano della società imperiale, ne assumeva i tratti patriarcali-maschili. Quindi si è avuta ben presto una progressiva marginalizzazione delle donne non tanto dalla possibilità della salvezza, che non è mai stata messa in discussione visto che hanno sempre potuto accedere al battesimo, quanto dall’esercizio e dai ruoli di autorità all’interno della Chiesa. Nei gruppi ereticali, invece, le donne hanno sempre trovato spazi maggiori». Per quanto riguarda Maria Maddalena, alla quale è dedicato anche un vangelo apocrifo, la Perroni osserva che la figura devozionale della tradizione nacque da un’omelia di papa Gregorio Magno (540-604), che unificò tutte le donne di nome Maria citate nei vangeli, a parte la madre di Gesù, in un unico personaggio: «In questo modo nacque uno stereotipo funzionale a una pedagogia ecclesiastica fondata sulla mistica della peccatrice redenta». A parlare di resurrezione ci aveva già rimesso la faccia Paolo di Tarso. Invitato a spiegare davanti ai cittadini di Atene riuniti nell’Areòpago, l’antica assemblea che si occupava di moralità e religione, le caratteristiche della dottrina che andava insegnando con zelo di neofita, aveva attaccato con una dotta dissertazione sulla ricerca di Dio che da sempre agita gli uomini di ogni luogo ed epoca. Ma alla fine, racconta il libro degli Atti al capitolo 17, Paolo aveva suggerito che la ricerca poteva finalmente dirsi conclusa perché Dio aveva designato un uomo per dare il giudizio definitivo sull’umanità, «dandone a tutti prova sicura col resuscitarlo dai morti». I sorrisi di disprezzo e l’irritazione degli ascoltatori si erano condensati in un brusco congedo: «Su questo ti sentiremo un’altra volta». Un pugno nello stomaco, parlare di resurrezione. Per i greci del tempo di Paolo, come per tanta gente d’oggi, che magari si dice cristiana. Eppure la Chiesa su questo dato di fede, che ritiene fondamentale, non è mai scesa a compromessi: Gesù morì, fu sepolto e il terzo giorno è resuscitato. I primi due verbi sono scientificamente comprensibili, il terzo no. «Quando si parla della resurrezione di Gesù, non bisogna partire dal fatto, che è indimostrabile, ma dall’annuncio». Romano Penna, docente di Sacra Scrittura alla Pontificia Università Lateranense di Roma, è molto chiaro: «Nessuno ha assistito alla resurrezione. Il sepolcro è stato trovato vuoto, ma non si può dire che questa sia una prova, perché la si può interpretare in tanti modi. Il trafugamento del cadavere è il più ovvio, tanto che è riportato dal vangelo stesso, laddove i capi dei giudei chiedono alle guardie di giurare che dormivano nel momento in cui i discepoli erano venuti a portarsi via il cadavere (Vangelo di Matteo 27, 62-66)». Invece il vangelo di Pietro, apocrifo del 130, è il primo testo che tenta di descrivere la scena di «un giovane seduto in mezzo al sepolcro, bello e rivestito di una risplendentissima stola». Quasi a voler colmare, osserva Penna, un vuoto che «i quattro vangeli canonici molto onestamente rispettano». Tra il Settecento e l’Ottocento furono molto in voga teorie di tipo razionalistico: quella del filosofo Hermann Samuel Reimarus (1694 - 1768) riprendeva la teoria del furto di cadavere; il teologo Heinrich Eberhard Gottlob Paulus (1761 - 1851) ipotizzò che la frescura della tomba avesse risvegliato Gesù che semplicemente sembrava morto; David A. Strauss nel libro ”Vita di Gesù” (1835) elaborò una teoria del mito per cui la resurrezione sarebbe il frutto del bisogno psicologico dei discepoli di risolvere la contraddizione tra la fine ingloriosa di Gesù e la loro precedente opinione su di lui. Oggigiorno questo tipo di letture positiviste non regge più: «Nel contesto dell’epoca» prosegue Penna «non c’era nessuna premessa perché una notizia del genere venisse accolta, né in ambito greco-romano né in ambito giudaico. Si è trattato di un annuncio davvero controcorrente». Anche in altre tradizioni era comunque presente l’idea di poter sconfiggere la morte attraverso una qualche forma di resurrezione. Per quanto riguarda la tradizione giudaica, ad esempio, il concetto di resurrezione si è affermato a partire dal II sec. a.C., però riguardava l’eskaton, la fine dei tempi, quindi la collettività e non un singolo uomo. Inoltre, secondo la mentalità giudaica, il Messia è un trionfatore che non deve morire, per di più nel modo infamante che è toccato a Gesù di Nazareth. Infine, prosegue Penna «non c’è nessuna documentazione che qualcuno sia andato lì, con la bacchetta magica davanti al sepolcro, a resuscitarlo. L’annuncio del resuscitato coincide con l’assenza di un resuscitante». Rispetto alla cultura greco-romana la rottura è totale, visto che in quella non solo mancava la categoria del Messia, ma pure quella della resurrezione. Cinque secoli prima di Cristo, Eschilo scriveva: «Zeus, che pure è potente, non ha trovato il modo di resuscitare i morti». Plotino, nel Secondo secolo dopo Cristo, dice: «La resurrezione che importa è quella dal corpo, non del corpo». Due esempi lampanti del dualismo antropologico greco che teorizzava la separazione dell’anima dal corpo e che prevede l’immortalità della prima, escludendo qualsiasi idea di resurrezione della carne. Insomma, come nota Penna: «Checché se ne dica abitualmente, è molto più carnale il Cristianesimo che la cultura ellenistica». Ma allora le analogie spesso citate tra la resurrezione di Gesù e il mito egizio di Osiride o quello fenicio di Adonis, sui quali peraltro Brown insiste parecchio, non significano nulla? Secondo Penna bisogna tener presente alcuni aspetti: «Anzitutto, dal punto di vista storico, sia il mito di Osiride che quello di Adonis sono giunti nell’ellenismo tardi, dopo le conquiste di Alessandro Magno. Si tratta in realtà di racconti di morte e di reviviscenza collegati al ciclo delle stagioni, cosa di cui erano consapevoli gli stessi autori pagani. Sallustio Saturnino, nel quarto secolo dopo Cristo, lo aveva capito benissimo quando scrisse: ”Queste cose non furono mai, ma sono sempre”. Perciò non si deve fare l’errore di leggere questi miti alla luce delle categorie cristiane, che sono posteriori. Inoltre Osiride e Adonis non sono personaggi storici, mentre la storicità della figura di Cristo è un dato ormai assodato». Di parere molto diverso è Giulio Giorello, docente di Filosofia della scienza all’Università Statale di Milano: «Io credo che la vicenda di Gesù sia un grande mitologema (racconto mitico che, col tempo, viene continuamente rimodellato, ndr), ma non in senso riduttivo. Non c’è niente di male a leggere la vicenda di Gesù come un mito. Mito non significa menzogna, anzi: già in Omero mythos ha il significato di ”parola vera”. In ogni caso, secondo Giorello «la fede non riguarda asserzioni di fatto ma di valore, riguarda ciò che dà senso alla nostra vita. Come aveva capito Giordano Bruno, dopo che la cosmologia copernicana ha distrutto la distinzione tra mondo celeste e mondo terrestre, non c’è più bisogno di cercare Dio nei cieli, basta guardare dentro di noi». E lì, forse, si trovano delle indicazioni molto interessanti. «La biologia stessa» osserva Emilio Baccarini, docente di Antropologia filosofica all’Università Tor Vergata di Roma, «ci dice che ognuno di noi è un soggetto unico e irripetibile. Sarebbe veramente uno spreco se tutto ciò finisse con la morte. Questa singolarità è il preludio di uno slancio oltre la morte che caratterizza l’uomo. ”Non omnis moriar” diceva già Orazio. Nella struttura del desiderio si ritrova l’affermazione implicita di una trascendenza dell’essere umano». E la resurrezione di Gesù cosa c’entra con tutto ciò? «Potrebbe essere l’anticipazione di un destino comune» suggerisce Baccarini. Basta crederci. Marco Burini