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 2004  marzo 28 Domenica calendario

Giuliani Alfredo

• Mombraccio (Pesaro) 23 novembre 1924, Roma 20 agosto 2007. Poeta • «Un luogo comune della cultura poetica italiana relega Alfredo Giuliani [...] tra le eminenze critiche della neoavanguardia letteraria, e là lo crocifigge. Gli fu condanna la prefazione all’antologia I Novissimi del 1961. La sua poesia, la poesia che ha scritto lui, è sempre passata in secondo piano. Un certo astrattismo di Po vera Juliet (penso a un testo emblematico come Azzurro pari giovedì), paragonabile alla coeva pittura della scuola romana (Angeli, Festa, Schifano) ne facilitava l’accantonamento. Ma il lento cammino dalla dominante visiva, puro-visibilistica, alla dominante sonora de Il tautofo no e, infine, il ricongiungimento, sebbene dubbioso, con il cosiddetto significato, continua a cadere nell’oblio. In Ebbrezza dei placamenti del 1993, un testo forte come L’omino di buona volontà avrebbe dovuto mettere in allerta. Vi era una traccia eroicomica e minimale dell’amato Jarry, di Ubu - un Ubu filosofeggiante, in pantofole (pantofole alla Savinio, di quelle con la testa di gatto). In Poetrix bazaar, pubblicato da Pironti, la svolta è tutta compiuta e radicale: da Jarry passiamo (ma c’eravamo già, fin dai primordi) a Palazzeschi, alle sue sonorità pure, ai suoi sfottenti clangori. Ma siamo anche al Palazzeschi tenero e remissivo, per così dire arreso, di Cuor mio: è il caso di una poesia come Su una frase di un amico. [...] Qual è, infine, il punto per questo poeta nato a Pesaro ma romano d’intendimenti e di saggezza antica? Egli non disdegna, di fronte al mondo dei sonnambuli, di percepirsi come ”imbambinito”. La sua saggezza è sempre mascherata di sonorità oltraggiose, una sonorità franta, derisoria, ghignante, (auto)sfottitoria, sarcastica - in specie, come ho accennato, nel gusto del piccolo, del minuscolo, del minimo. Il ”frustolo”, perfino privo di desinenza, non è tuttavia un gioco di parole, un mero scherzo, un abbaiar di cane. Se la sua (e nostra) esistenza non è che una serie di casuali e episodiche allitterazioni, di ”provvisorie fioriture”, di ”veloci fervori”, di ”flottanti evanescenze”, tuttavia perfino dopo che ciascuno ”svampi e crepi”, «Perché bellezza insiste // Angeli dovremmo incontrare / per parlare”. Anche per l’antica avanguardia la stupida fine sarà forse oltrepassata dalla angelica bellezza» (Franco Cordelli, ”Corriere della Sera” 28/3/2004). « un signore molto affabile che da sempre ama starsene sui bordi della vita letteraria. Da lì egli getta uno sguardo trasversale che improvvisamente illumina un verso, una pagina, un pensiero. Giocare con le parole e con i pensieri. Questo gli piace fare. Ma con rigore sommo. Perciò è un gioco serio, ma non per questo meno lieve e appassionante. [...] ”Sono stato un ragazzo senza prodigio. Un tipetto normale. Giocavo a pallone, vedevo i compagni, non eccellevo a scuola. Ma già da piccolo procedevo nelle mie letture, in modo indipendente rispetto a quello che passava la scuola. Mia madre era una lettrice accanita di romanzi e io spesso frugavo tra i suoi libri [...] I miei si separarono che avevo sette o otto anni. Lui era un farfallone. Gli piacevano le donne, il gioco e la musica [...] la musica gli dava da vivere. Suonava il violino. Era una spalla del primo violino al Teatro dell’Opera di Roma [...] Eravamo una famiglia strana: io, mia madre e mia nonna. Avevo un Edipo gigantesco. Ho traslocato da numerose case. Di alcune ho un bellissimo ricordo. Come pure ricordo benissimo mia zia. Da lei andavamo quasi tutte le domeniche. Possedeva una collana di classici stranieri della Utet. E ogni volta che ero lì, mi mettevo da una parte a leggere. Così ho divorato il primo romanzo di Balzac e il primo libro di Nietzsche [...] Gli anni Trenta. Leggevo di tutto: dal teatro ai romanzi, alle riviste. Ero diventato un frequentatore di bancarelle. Poi accadde qualcosa di determinante. Non avevo ancora 15 anni e qualcuno mi regalò Una stagione all’inferno e Le Illuminazioni di Arthur Rimbaud. La traduzione era di un certo Oreste Ferrari, restai incantato da quel libro [...] Pensavo che era stato scritto da uno che non aveva vent’anni, nello stesso periodo in cui da noi pubblicava il Carducci. E mi dicevo: non è possibile che lui sia solo un fiore nel deserto. Se scrive in questo modo vuol dire che è accaduto qualcosa che merita di essere esplorato [...] Prima di incontrarlo credevo che i poeti si dividessero in due categorie: quelli che parlano delle cose di questo mondo, come Leopardi; e quelli che parlano delle cose dell’altro mondo, come Omero o Dante [...] Era un poeta che a leggerlo ti rendevi conto che non stava né in questo mondo né nell´altro. Aveva immaginato un universo di sogni e di allucinazioni. E nella mia mente di ragazzo creai questa terza categoria un po’ primitiva che mi permise di includere tutte le poesie che mi piacevano [...] Del regime subii gli aspetti ridicoli. Non riuscii per esempio a farmi esonerare dalla ginnastica, per cui avevo l’obbligo di andare ai sabati fascisti. Mi vergognavo di uscire vestito in quel modo. Rasentavo i muri, mi incupivo, mi sentivo un altro. Poi una volta arrivati c’era il presentat’arm. Ricordo un episodio di me ritto con il fucilino sulla spalla e un gerarchetto da quattro soldi che si ferma davanti, mi squadra e poi con due dita pizzica l’elastico che teneva fermo il mio fez. Lo tende e poi lo lascia. E poi di nuovo lo ritira [...] L’avrei strozzato. Mi veniva da piangere più dalla rabbia che dal dolore [...] Non avevo fatto nulla. Ma era il modo di guardarlo che lo aveva colpito. Non riuscivo a nascondere quello che avevo negli occhi [...] Pura diffidenza. E non c’erano ragioni politiche precise. C’era il fatto che ero abituato a guardare gli adulti con diffidenza. Tutta la mia storia privata confluiva verso questo stato d’animo. Ecco: guardavo gli adulti come un antropologo guarda il comportamento delle scimmie [...] Al ginnasio ci obbligavano a studiare le canzoni all’Italia: ”Italia, Italia sacra la nuova aurora, con l’aratro e la prora”. A me questa roba faceva ridere. Poi al liceo ebbi un simpatico professore di filosofia che mi introdusse ad alcuni testi che a me piacquero e soprattutto ho avuto uno splendido insegnante di greco con una passione per la metrica che mi ha trasmesso [...] era il 1942 e cominciai a lavorare. Quello fu un periodo per me un po’ scanzonato [...] Ero in un ufficio che controllava il mercato delle carni. Allora contingentato per via della guerra. Noi lavoravamo in una struttura alle dipendenze della Federazione Italiana Consorzi Agrari, che avevamo ribattezzato ”la fica’. C’erano molti giovani come me e qualche anziano che controllava e dirigeva l’ufficio. La cosa che ricordo con più piacere erano le imitazioni che facevo del duce [...] Ero molto giovane. Però due mesi dopo l’8 settembre del ”43 mi arrivò la chiamata del distretto. Avevo 19 anni e nessuna voglia di arruolarmi [...] Non risposi alla chiamata e nei primi tempi mi rifugiai da mia zia che era monarchica e antifascista. Nella sua casa aveva accolto amici ebrei e alcuni carabinieri con abiti civili scappati dalla caserma Pastrengo. Era una situazione pericolosissima, per cui mio padre, che era amico del direttore artistico dell’Opera di Roma, riuscì a farmi figurare nel personale che vi lavorava [...] Il ragionamento di mio padre era semplice. Siccome i tedeschi, nella loro follia burocratica, non volevano assolutamente intralciare il lavoro del Teatro dell’Opera, ritenevano che chi vi lavorasse fosse giusto esentarlo dal servizio militare. Ricordo che mi presentai al distretto, tutto tremebondo, con una falsa tessera professionale. Passai indenne al controllo ed ebbi il permesso rinnovabile ogni quattro mesi ad essere esentato. Poi la guerra finì, arrivarono gli americani e Roma cambiò nuovamente. E io imboccai il faticoso cammino dell’università [...] Mi iscrissi a filosofia. Anche se la laurea era equivalente. Feci una tesi su Carlo Michelstaedter, senza concordarla con nessuno [...] Non so quanto fosse la retorica giovanile o piuttosto il fatto che di quel filosofo mi aveva colpito una frase: ”abituarsi alla parola è come prendere un vizio’ [...] mi rendevo conto che la sua fine, il suo suicidio, aveva qualcosa di enigmatico che si poteva spiegare solo con l’assoluta determinazione del suo filosofare. Io capivo che era molto difficile reggere quello stato mentale senza fare compromessi. E lui non voleva farne. Non volle cedere nemmeno di un millimetro davanti alla retorica. Ecco perché si tirò un colpo di pistola [...] Forse mi affascina tutto quello che è inconcepibile nel panorama letterario italiano. Sicuramente è questo che mi ha fatto scattare una specie di innamoramento per il poeta Dylan Thomas [...] la sua poesia che riusciva a essere forzosa, esuberante, ma di una esuberanza melodrammatica. E poi aveva un pendant comico che mi piaceva moltissimo. Ricordo che spedii a Luciano Anceschi alcune poesie di Dylan Thomas che avevo tradotto, insieme ad un gruppetto di mie poesie che mi parevano finalmente accettabili [...] a quel tempo Anceschi era uno dei pochi critici che io rispettassi. Il suo lavoro sui Lirici nuovi per me fu una grande scoperta. Con mia sorpresa mi rispose dicendomi che le poesie che gli avevo spedito le avrebbe pubblicate in una collana che sarebbe uscita l’anno successivo. Questo accadeva nel 1954 [...] scontato scrivere poesie. Mentre fare poesia è la cosa più complicata e complessa che si possa realizzare con il linguaggio. La poesia è anche musica e senso. una quantità di cose che si lasciano percepire tutte insieme. E poi ha in sé una forza distruttiva che ti coinvolge [...] Se cominci a credere in quello che stai facendo tutta la tua vita ne sarà condizionata. Non diventerai milionario, non sarai abile in nessun altro mestiere, sarai guardato come un personaggio singolare e inutile. Ecco, l’idea di essere inutile in una maniera così complicata e difficile ha sicuramente il suo fascino [...] Mi sento sulla linea che parte da Cavalcanti e fa un bel salto verso Leopardi, in mezzo tanti piccoli passaggetti, Metastasio, Tasso... [...] Dante è sicuramente un genio, ma un genio paranoico. Ha preteso di giudicare, condannare, sistemare e infine saldare i conti con tutto l’universo mondo. E questa è già un’impresa da paranoico. Nessuno ha il coraggio di dirlo [...] Io mi levo il cappello davanti alla sua lingua. Ma come poeta lirico scelgo Cavalcanti [...] il Tasso è un poeta di una bravura eccezionale. Non c’è una poesia del Tasso che sia brutta. Invece trovi delle poesie di Leopardi brutte, solo che Leopardi è un genio [...] osa attraversare zone che anticipano i secoli futuri”. [...] Anceschi. Con lui si imbarcò nell’avventura della rivista Il Verri. ”Fu una bellissima avventura. Il primo numero lo preparammo alla fine del 1956 e uscì nel 1957. Per la parte che mi riguardava recensii per i primi numeri le poesie di Montale, Sanguineti e Cacciatore che fu una mia scoperta”. Dal Verri nacque in seguito l’antologia dei Novissimi. ”Fui io a proporla ad Anceschi. Lui immaginava una antologia della poesia italiana fatta con quelli del gruppo Officina, Leonetti e Pasolini, poi i postmontaliani, tipo Erba e Risi e infine noi. Anceschi mi chiese che cosa ne pensavo. Io ci riflettei un giorno e poi gli dissi che bisognava fare una cosa che spiazzasse la critica. Proposi una antologia composta unicamente con quelli del Verri. Nacque così i Novissimi [...] Oltre a me, Sanguineti, Pagliarani, Balestrini e Porta. Fu Sanguineti a trovare il nome di Novissimi”. [...] l’esperienza del Gruppo 63. ”Quel Gruppo non è altro che il prolungamento delle cose serie che avevamo fatto prima. Tutto accadde in una sera. Ci eravamo riuniti al Teatro Scarlatti di Palermo dove si stava tenendo un Festival internazionale e volevano invitare anche degli scrittori. Fu un bellissimo spettacolo. Ma non c’era la televisione, né i fotografi solo un paio di radio a seguire l’evento [...] lo dico perché la mitologia del Gruppo 63 è venuta molto dopo. Quando il Gruppo si è disintegrato, è morto, hanno fatto il loro ingresso i cantori [...] C’è un lato comico nella persistenza, però alla fine se ti occupi di letteratura ti interessa che le cose restino. Desideri che le cose che hai scritto rimangano [...] Sono darwiniano e leopardiano. difficile che prenda l’al di là sul serio. Però l’idea di incontrare Cavalcanti mi piacerebbe. E anche Dante mi piacerebbe incontrare e dirgli: ma che ci stai a fare in questo cielo fasullo, che non è per niente simile a quello che tu ci hai raccontato [...] non mi convince l’idea che il nostro destino di mammiferi parlanti debba essere diverso dai mammiferi che abbaiano, che muggiscono, che latrano o che squittiscono. Il problema non è credere o non credere. Il punto è quello che ci convince o non ci convince [...] Abbiamo due potenti afrodisiaci che sono il linguaggio e il pensiero. Possiamo immaginare l’eternità e pensare all’immortalità. Sono problemi che troviamo anche all’origine della cultura greca. La quale non li ha risolti e neppure noi. Mi torna in mente Eraclito, uno che mi ha sempre appassionato per quel suo lato sfuggente e per la capacità di metterti un sacco di pulci nell’orecchio. Peccato che non offra soluzioni. Ricordo un suo frammento: ”I giovani non sanno che cosa li aspetta’. Che voleva dire? una minaccia o una visione? Meglio essere scettici, non trova?”» (Antonio Gnoli, ”la Repubblica” 21/11/2004).