Varie, 20 marzo 2004
RAIMONDI
RAIMONDI Ezio Lizzano in Belvedere (Bologna) il 22 marzo 1924. Italianista • «Uno dei maggiori storici della nostra letteratura. [...] parabola di studioso - che spazia da Dante a Machiavelli, dal Tasso al Manzoni, dal barocco al futurismo, da D´Annunzio a Moravia - l´esperienza di vita ne fa un testimone di fatti e personaggi della storia recente. Bolognese (il comune dov´è nato, Lizzano in Belvedere, dista pochi chilometri da piazza Maggiore), ha studiato ad Heidelberg, insegnato a Baltimora e a New York, a Berkeley e a Los Angeles e poi a lungo nella sua città. L´impegno teorico non lo ha estraniato dalle sue radici: gli incontri giovanili, i maestri con i quali s´è formato, le frequentazioni più mature. [...] ”Ho frequentato il corso di lettere [...] due anni sui quattro consueti. Dal ’43 al ’44 subii una pausa. La mia classe, il ’24, era di leva: finii, da soldato, in Westfalia e poi nella Germania del Sud. Tornato in Italia per una licenza, non essendomi arruolato nell´esercito di Salò venni considerato un disertore. Riuscii tuttavia a laurearmi in regola, nel ’45, con una tesi sulle Familiares di Petrarca, con il professor Carlo Calcaterra. [...] Era un maestro-signore. Discreto, attento, affabile con gli studenti. Non era crociano. Legato a una tradizione torinese, quella di Arturo Graf, era stato amico intimo di Gozzano. Si portava dietro un segno di autentica poesia. Veniva considerato più un erudito che uno storico. L´erudizione era per lui il senso del molteplice, lo studio della varietà dei fenomeni”. Ma la vera rivelazione, per Raimondi, era stato Roberto Longhi, anche lui ordinario a Bologna. Ne seguiva le lezioni prima di partire soldato. ”Insegnavo allora alle elementari, avendo preso la licenza magistrale prima della maturità classica. Longhi teneva le lezioni nel pomeriggio, e così potevo frequentarle. Vertevano sui ’fatti di Masolino e Masaccio’ nella Cappella Brancacci di Firenze. Longhi ne faceva un romanzo, fondato però su prove, tracce, segni. Su una delle pareti della cappella - raccontava - c´era un chiodo. E intorno ad esso Longhi andava organizzando l´alternarsi della visione dell´allievo, Masaccio, accanto con quella del maestro, Masolino. Ne usciva, nitido, il rapporto fra l´artista anziano e il pittore più giovane audace, aggressivo. Longhi suggeriva l´interpretazione dell´opera attraverso metafore fascinose. Dopo che, nel ’45, ebbi sostenuto un esame con lui, mi propose di laurearmi in storia dell´arte, mettendomi a contatto con Francesco Arcangeli, suo assistente. L´offerta mi inorgoglì, ma non seppi accettarla. Per paura. [...] L´ironia di Longhi, il suo gusto della parodia, potevano darti la sensazione d´essere preso in giro. Reggeva in mano una canna, con la quale sottolineava i particolari delle diapositive che scorrevano su una parete dell´aula. Avvitandosi su quella bacchetta, si trasformava - così mi pareva - in una scultura manieristica. Prendevo appunti al buio, e ogni sera li trascrivevo, come omaggio alla rappresentazione cui avevo assistito. Ero arrivato all´università senza aver fatto il liceo, venivo cioè da un mondo diverso da quello della borghesia con le sue nozioni e raffinatezze. Longhi era una cima inattingibile. L´ammirazione che mi destava era venata - lo ripeto - di paura”. Pier Paolo Pasolini a Lettere era un anno più avanti di Raimondi. Lui lo ricorda in coppia con un altro futuro scrittore, Roberto Roversi. ”Anche Pasolini”, racconta, ”si laureò con Calcaterra: la sua tesi era su Pascoli. Credo di averlo visto mentre ci avvicendavamo nello studio del professore. Non più che uno sfiorarsi di fantasmi. I miei amici assidui erano altri: Guglielmi, Serra. Con il primo, Giuseppe Guglielmi, mi sono incontrato ogni domenica per vent´anni. Lui era traduttore dal francese. Esaminavamo insieme i testi sui quali stava lavorando. Li leggevamo. Li correggevamo. Così è stato con Céline, con Starobinski, con Focillon e Baudelaire. Lui recitava la traduzione. Io, con il testo francese in mano, a tratti mi allontanavo di qualche passo per saggiare la resa fonica delle sue immagini. Si trattava di un gioco e anche di una piccola sfida a chi aveva trovava la soluzione migliore. Credo che di amicizie così ce ne siano poche. Io ne ho avuto una”. L´altro si chiamava Franco Serra, figlio di un noto chirurgo. ”Era un filosofo raffinato, con conoscenza di prima mano di Hegel e Marx. Conversavamo fra noi con lunghi silenzi, spesso pedalando in bicicletta. Il caso volle che, nei suoi ultimi giorni di vita, fosse venuto alla luce l´autografo dell´Esame di coscienza d´un letterato di suo zio Renato, fratello del padre. Ci impegnammo a discutere le ultime pagine di quel testo di famiglia. Ancora una volta, la letteratura si mescolava all´amicizia”. Da ragazzo, per Raimondi, ha contato molto il cinema. ”Ci andavo perfino due volte al giorno, con una sorta di rito familiare la domenica. Pagavo il biglietto attingendo alla scarna ”paghetta”. Mio padre era un calzolaio senza bottega propria: aveva il suo banchetto in un angolo dell´abitazione. Mia madre era una donna di servizio. Accanto al nostro appartamento - termine enfatico per descriverlo - al secondo piano d´una casa di ringhiera viveva una coppia senza figli che finì per diventare la mia seconda famiglia. La signora badava a me di mattina, mentre i miei erano impegnati. Aveva una predisposizione per il cinema. Suo marito, un tornitore specializzato, amava la musica e conosceva da esperto il melodramma. La mia passione per lo spettacolo si acuì. Con il contributo di quei miei secondi genitori la mia paghetta, in pratica, diventava doppia. E veniva tutta destinata al cinema”. Bologna, l´editoria, l´avventura del Mulino, l´omonima "Associazione" che Raimondi ha presieduto fino al 2003. ”Si racchiude lì tutto un capitolo delle mie amicizie. Come mi accostai a quel mondo? Erano i primi anni Cinquanta. Avendo tradotto un testo di Karl Jaspers, e avendo letto Heidegger, io tenevo conferenze in certe associazioni di cultura. Vennero ad ascoltarmi Luigi Pedrazzi e Nicola Matteucci. Il Mulino-rivista, da poco fondata, era un luogo d´incontro fra cattolici, socialisti e liberali. Cattolico era Pedrazzi. Lo era anche Pier Luigi Contessi, con una sua spiritualità assai personale, tra sobria e ironica. Socialisti erano Federico Mancini e Antonio Santucci. Matteucci era il liberale del gruppo. A tenerlo unito, il gruppo, contribuiva Fabio Luca Cavazza, un giovane che aveva uno spiccato gusto delle relazioni umane: brillante, estroverso, ma anche animato da ragioni profonde. Così io, che non mi sono mai lanciato in politica, ho fatto politica attraverso il Mulino. Svolgevo il mio ruolo, magari ridotto ma effettivo”. Il Mulino cresceva di notorietà. Reclutava intellettuali anche non bolognesi. Matteucci, Pedrazzi e Santucci, borsisti dell´Istituto Croce, strinsero amicizia con gli intellettuali napoletani di Nord e Sud: Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis, Renato Giordano, Luigi Amirante. ”Dopo la rivista”, riassume Raimondi, ”la casa editrice era nata naturalmente, quasi a nostra insaputa. Ci accorgemmo in ritardo che era una casa editrice. Matteucci diceva: ’Pubblichiamo i libri che vorremmo avere scritto’”. Soprattutto grazie a Giovanni Evangelisti, un adepto più giovane di quel sodalizio di amici, l´iniziativa bolognese assume un solido assetto industriale, sorretta da una struttura funzionale, con quattro pilastri: la rivista, la casa editrice, l´Associazione e l´Istituto Cattaneo, ora diventato fondazione. Arrivano i politici, da Romano Prodi a Nino Andreatta. Una presenza incisiva è Altiero Spinelli, il grande europeista. Raimondi ricorda di essere andato a visitarlo nel 1986 per conto del Mulino. ”Avevamo concordato con Spinelli che sarebbe stato lui a tenere la prima di quelle ’Letture” annuali che del Mulino sarebbero diventate una tradizione. Ora lui si trovava in clinica, e non avrebbe più potuto assolvere al compito. Mi parve corretto consultarlo su come porre rimedio alla sua forzata rinunzia. Fu, il nostro, un colloquio insieme sereno e teso. Parlammo di Thomas Mann e della Montagna incantata: tema consono al momento che Spinelli traversava. Ecco un altro dei casi in cui la letteratura non mistifica la vita, ma serve a rivelare l´umanità nella sua luce più semplice”" (Nello Ajello, ”la Repubblica” 20/3/2004).