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 2004  marzo 16 Martedì calendario

Long Richard

• Bristol (Gran Bretagna) 2 giugno 1945. Artista • «Ha percorso chilometri e chilometri a piedi in quasi ogni parte del mondo, Richard Long, dalla Gran Bretagna all’Argentina, dalle Seychelles al Giappone, dalla Mongolia allo Zambia, di solito luoghi appartati e privi di presenze umane. E quasi ovunque ha lasciato i suoi segni. In questo consiste il suo modo particolare di fare arte, di fare land art. L’artista inglese [...] è infatti un esponente di spicco del movimento nato alla fine degli anni 60, caratterizzato dall’uso di materiali naturali e dall’intervento degli artisti in grandi spazi aperti. Al contrario di altri land-artisti, come Robert Smithson, Walter De Maria o anche Christo, i ”segni” di Richard Long non sono monumentali. Molto spesso non sono neppure percepibili come interventi intenzionali, e a volte scompaiono quasi subito dopo essere stati prodotti. Sono sentieri appena percettibili, creati dal calpestio dei piedi dell’artista su un terreno incolto; figure geometriche fatte di pietre trovate sul posto; cerchi o raggi tracciati nella terra o nella sabbia con l’aiuto di un bastone; ma anche una scia colorata che forma la terra fatta scivolare sull’acqua di un fiume... Nel 1967 nasce il primo lavoro realizzato camminando, A Line Made by Walking: una linea tracciata su un prato, nella campagna inglese, documentata da una fotografia. Rappresenta, secondo quanto affermerà l’artista, il suo percorso personale, ”senza destinazione”. Anche in seguito, gli interventi di Long sul territorio saranno quasi sempre documentati da splendide foto in bianco e nero, o da ”mappe”, o ancora da testi a volte intensamente poetici. Sottolineare la transitorietà, l’impermanenza dell’intervento umano, e nello stesso tempo, paradossalmente, fissarlo nell’eternità: a questo sembra tendere l’artista. Cogliere l’essenza della pietra, e nello stesso tempo quella dell’acqua che vi scorre sopra. In questo modo Richard Long affronta il problema del tempo in relazione all’arte: il suo camminare è tracciare una linea dal passato al futuro, attraverso il presente. Il suo ”creare sculture camminando” gli consente di esplorare i rapporti tra tempo, spazio, distanza. In un certo senso, consiste in una geo-grafia e in una geo-metria. Letteralmente: scrivere-disegnare e misurare la terra. Nasce così un nuovo concetto di scultura: una scultura scomposta nello spazio e nel tempo delle lunghe distanze percorse camminando; una scultura che esplora, nel suo disseminarsi lungo un cammino solitario e perlopiù senza meta - come quello del Wanderer, il viandante protagonista di tanta poesia e musica del romanticismo - le categorie della caducità, della persistenza, della visibilità e del riconoscimento. Ma, a differenza che nella poetica romantica, in Long non è tanto centrale la questione del paesaggio, quanto l’atto in sé del camminare e ciò che significa e rappresenta, anche nelle sue radici culturali, che affondano nella storia sino ai pellegrini medievali e ai poeti erranti giapponesi. Ogni sua ”camminata” segue un suo percorso personale formale, univoco, realizza un’idea specifica. Per questo il lavoro di Long è anche fortemente concettuale. Il suo rapporto con la natura, che chiama in causa la problematicità dei parametri di percezione e misurazione dello spazio e del tempo, può farci pensare a quanto affermava quello che è forse il primo artista ”concettuale” della storia, Paul Cézanne: ”La natura è sempre la stessa, ma di essa nulla rimane, nulla di quel che vediamo”» (Silvia Pegoraro, ”Il Messaggero” 13/4/2005). «To walk or not to walk, that is the question. Camminare o non camminare, questo è il problema. Se sia più nobile per l’animo (e più utile alla salute) sopportare gli oltraggi dello smog, l’effetto serra e il buco dell’ozono o prender l’armi contro l’inquinamento, attraversare un parco, inoltrarsi su un sentiero di campagna ed esplorare, passo dopo passo, un labirinto urbano fitto di viali e stradine. Muoversi, deambulare, nulla più: e con una passeggiata dire che poniamo fine all’obesità e alle miserie del fiatone, naturale retaggio della carne, è soluzione da desiderare ardentemente. Muoversi, camminare. Sognare, forse. Ma qui è l’ostacolo maggiore: perché nelle nebbie della pennichella quali sogni possan venire, quando noi ci siamo liberati di un troppo lauto pasto, è un pensiero su cui si deve riflettere e sono questi pensieri a prolungare la durata della sventura. Così la sedentarietà ci fa tutti vili... Camminare, per Richard Long (inglese come Shakespeare), è un’arte, una scienza, un sentimento. Una forma di conoscenza primaria e insostituibile. [...] ”Camminare è una delle esperienze umane fondamentali. Intanto, è un piacere. Poi, è uno stile di vita, un modo ben preciso di affrontarla. Percorrere un territorio, infatti, è un’esplorazione che stimola e impegna tutti i nostri sensi e ci fa comprendere in profondità i rapporti con lo spazio e con il tempo, con il movimento, in perfetta sintonia con gli insegnamenti della teoria della relatività di Einstein. Ha un significato culturale immenso. Attraversare a piedi un paese, una città è il modo migliore per conoscerli. L’ambiente esterno è come un corpo, va ’toccato’, misurato, vissuto fisicamente e spiritualmente. Altrimenti è una realtà astratta. Senza senso [...] Ai miei genitori piaceva molto farlo. E questo mi ha aiutato a capire. Io, comunque, ho cominciato a riflettere sull’importanza di camminare nel 1964. Allora, però, limitavo le mie esperienze in studio: il mio primo vero lavoro che ne trae ispirazione diretta è A line made walking del 1967. Era una immagine che descriveva una linea retta tracciata in un prato della campagna inglese [...] lo scenario può essere molto diverso. Quello del Sahara è sicuramente indimenticabile. Ma ciò che conta, per me, è soprattutto il mio personale rapporto con la natura. Per quanto diversi possano essere i contesti in cui agisco, tutti i miei lavori hanno una identità comune. Uso sempre gli stessi segni: cerchi (un simbolo della continuità biologica, in cui nulla si crea e nulla si distrugge), ellissi, spirali, linee. Forme geometriche essenziali. questo che unifica le mie opere [...] sono una via di mezzo tra monumenti e tracce sul terreno, che si ispirano a comportamenti antichissimi, spesso preistorici. Questo ha un riscontro anche nella scelta dei materiali, come le pietre o il fango, che può dare sorprese straordinarie [...] generalmente sono solo. La solitudine consente una concentrazione ideale per un impegno così intenso come quello di esplorare un territorio o di intervenire lasciandovi dei segni [...] Il mio lavoro punta al traguardo della semplicità, ma non è affatto ’semplice’. Richiede un’attenzione speciale alle relazioni che intercorrono tra tempo, spazio, misura, movimento. Quanto ai materiali, posso usare sostanze primordiali come il fango e medium assai astratti come la fotografia, che mi è indispensabile per fissare alcuni momenti o esiti del mio lavoro [...] La natura è la natura. Non è né buona né cattiva. Comunque la si giudichi, rappresenta la radice stessa della vita. E il rispetto per la natura costituisce il senso di tutto il mio lavoro”» (Marina Di Forti, ”Il Messsaggero” 13/4/2005). «’Alle volte ho un’idea sola. Cammino dritto per cento miglia seguendo una linea retta. Altre volte invece, a seconda delle caratteristiche del percorso, cammino in tondo o come un rabdomante per molte miglia”. [...] Ha lo sguardo azzurro e diretto di chi ha a lungo vissuto e non ha bisogno di parole per comunicare. Il suo lavoro fatto di fango, acqua, erba, pietre depositate al suolo come tracce provvisorie è riassumibile nel concetto di passaggio: di impermanenza e al contempo di eternità. ”La pietra è ciò di cui è fatto il mondo - dice -, è vecchia milioni di anni, mentre l’acqua che scorre sopra la pietra dura un istante”. Qualsiasi elemento naturale, per il land-artista inglese, è trasformabile in opera, opere che hanno brevissima durata, fatte per la terra o per un passante, come un rituale laico, un omaggio all’esistenza. Non c’è ricerca di audience e consenso, c’è l’esperienza solitaria, totale e fisica dell’artista, realizzata in rapporto agli incontri casuali e alla terra che si stende sotto ai suoi piedi. Usa le pietre per disporle circolarmente, oppure formare una linea retta o a zic zac secondo il suo vocabolario personale. ”Il cerchio non appartiene a una sola persona, è di tutti, è una verità platonica”, afferma. Long cammina da solo e non porta con sé altro che una macchina fotografica e un notes per gli appunti, del suo lavoro spesso rimane una mappa, una foto o uno scritto. ”Camminare è il miglior modo per conoscere il paesaggio, per essere nel paesaggio” dice, e compiacendosi afferma la sua radicata appartenenza all’Inghilterra. ” sempre lì che torno, a Bristol”. Come sceglie luoghi e materiali per le sue opere? ”I luoghi li trovo per caso, ci sono molti modi per camminare, molti terreni diversi, a seconda di ciò che trovo realizzo il lavoro: uso l’acqua sulla pietra se sono in prossimità di un fiume. A Maharashtra, vedendo una ragazza spazzare il terriccio, ho fatto un tracciato usando la scopa, dopo un po’ il vento lo ha fatto scomparire”. A lui non interessa che le tracce vengano percepite come opera, è un aspetto secondario, tuttavia il suo lavoro è entrato in tutti i musei del mondo e il valore di mercato è molto alto. Ma tutto si svolge in silenzio, fuori dalla concentrazione metropolitana, in luoghi marginali. [...] Quali relazioni c’erano tra Long e gli altri land-artisti americani che tracciavano percorsi nei campi o spirali nei ghiacciai? ”Mah, negli anni 60 accadevano spontaneamente molte cose in diverse parti del mondo, la mia generazione è concettuale, minimalista, pop io mi sento molto vicino all’arte povera, il mio spirito è quello di fare qualcosa per niente. La mia è una generazione fortunata, piena di energia, è quella dei Beatles e del rock e io mi considero un moderno, un artista del paesaggio come poteva esserlo Cézanne”. [...] Il suo peregrinare solitario somiglia per contrasto alla vita del flâneur baudelairiano raccontata da Walter Benjamin. Ma anziché camminare nel centro di Parigi e Londra per affacciarsi al XX secolo, Long cammina lungo deserti e territori sgombri perché in fondo, dice lui, la figura di colui che cammina è molto antica, basti ricordare i poeti camminatori giapponesi» (Manuela Gandini, ”La Stampa” 16/3/2004).