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 2004  marzo 13 Sabato calendario

Promettevano di cambiare il mondo, ma hanno fatto la fine dei dinosauri. Dall’aereo supersonico di linea al videodisco, dal telefono cordless cittadino all’auto elettrica, ecco i flop tecnologici più clamorosi degli ultimi decenni: prodotti salutati con clamore alla loro nascita, ma di cui nel giro di pochi anni si sono perse le tracce

Promettevano di cambiare il mondo, ma hanno fatto la fine dei dinosauri. Dall’aereo supersonico di linea al videodisco, dal telefono cordless cittadino all’auto elettrica, ecco i flop tecnologici più clamorosi degli ultimi decenni: prodotti salutati con clamore alla loro nascita, ma di cui nel giro di pochi anni si sono perse le tracce. Come la selezione naturale, anche l’innovazione tecnologica ha i suoi vincenti e i suoi sconfitti. E non sempre si tratta dell’idea balzana di qualche progettista: spesso, anzi, sono tecnologie su cui tutti o quasi saremmo pronti a puntare. Cosa fa di una buona invenzione un flop? Difficile dirlo. A volte i costi necessari per portarla al successo sono troppo alti. Oppure il suo inventore non è altrettanto bravo come politico. Secondo Vittorio Marchis, docente di storia della tecnica al Politecnico di Torino, «una buona invenzione deve anche essere sostenuta e accompagnata sul mercato, e per fare questo l’inventore deve saper mediare con molti soggetti diversi: le industrie che già lavorano in quel settore, le agenzie di regolazione del mercato, i negozianti e così via. Molte innovazioni mancate sono dovute proprio alla scarsa capacità politica di chi le propone». Ma spesso un flop è semplicemente una buona idea che arriva al momento sbagliato. E non è detto, come si potrebbe pensare, che il momento sbagliato coincida con un periodo di crisi economica. «In realtà il benessere è nemico dell’innovazione» prosegue Marchis. « nei momenti di crisi e di cambiamento che gli inventori si danno più da fare e che la società è più disposta ad accettare cose nuove, anche a costo di rischiare e di spendere. Quando si sta troppo bene si tende a mantenere lo status quo e a rifiutare l’innovazione». A volte le tecnologie rifiutate dal mercato scompaiono rapidamente e crudelmente, altre volte muoiono di una morte lenta ma inesorabile. Pensiamo per esempio al Concorde, il primo e unico aereo supersonico usato per voli di linea: da ogni punto di vista, una delle più grandi meraviglie tecnologiche del XX secolo. Fu sviluppato da Francia e Germania a partire dal 1956, ma i voli di linea iniziarono solo venti anni dopo: il 21 gennaio del 1976 il primo volo British Airways decollò da Londra verso il principato arabo del Bahrein, e contemporaneamente un volo Air France partiva da Parigi verso Rio de Janeiro. Il Concorde riduceva anche le più grandi distanze a un viaggio banale: poteva andare da Londra a New York in meno di tre ore. Considerando la differenza di fuso orario, significava arrivare prima di quando si era partiti. Fu presto chiaro, però, che il Concorde non avrebbe sostituito i normali aerei: gli ordini da parte di altre compagnie aeree non arrivavano e la flotta dei Concorde si fermò ai 14 esemplari posseduti dalla compagnia britannica e da quella francese: un po’ pochi, considerando quanto era costato il progetto. Il fatto è che un volo in Concorde era spaventosamente costoso e non aveva senso proporlo se non per pochissime linee frequentate abitualmente da miliardari, rockstar o capitani d’azienda, come appunto quella tra Londra e New York. Esaurito il clamore iniziale, il Concorde finì per apparire sempre più un lusso inutile, e la sua fine fu accelerata dal terribile incidente del 25 luglio 2000: un Concorde appena decollato da Parigi si schiantò a causa di un guasto al motore, facendo 113 vittime. I voli furono sospesi, per riprendere brevemente nel novembre del 2001, nel pieno della crisi delle compagnie aeree seguita all’11 settembre. Il 24 ottobre 2003 gli ultimi tre voli sono partiti da Londra. Il Concorde è andato in pensione senza aver mai mantenuto le promesse iniziali. L’aereo supersonico almeno è rimasto in circolazione per quasi trent’anni. Molto peggio è andata a un oggetto più semplice come il Laserdisc, o videodisco, nato da una collaborazione tra Philips e Sony a metà degli anni Settanta. Era il primo sistema di registrazione di immagini su disco e anche il primo a utilizzare il sistema di lettura laser che poi sarebbe stato alla base del compact disc. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, sul videodisco l’immagine era immagazzinata in forma analogica e non ancora digitale. Gli ingegneri della Philips progettarono il Laserdisc ragionando per analogia: poiché il supporto più diffuso per ascoltare musica nelle case era un disco, sembrò logico usare lo stesso formato anche per registrare l’immagine. Il problema era però la durata: nonostante che il disco fosse di dimensioni notevoli (poco più grande dei 33 giri in vinile), non poteva contenere più di 37 minuti di video: un po’ poco per registrare un film, che è l’utilizzo più comune di un supporto video. Così il Laserdisc non entrò mai veramente nelle case, ma fu utilizzato solo nelle scuole o nelle biblioteche. Se il videodisco fu un flop è anche perché, quando arrivò sul mercato nel 1978, si trovò a combattere con un temibile rivale: la videocassetta. Forse, però, non tutti ricordano che anche la storia del videoregistratore ha i suoi flop. Nel 1975 infatti, ben prima che il formato VHS si affermasse come lo standard di riferimento sul mercato, era arrivato il Betamax della Sony. Che avrebbe dovuto essere favorito per diversi motivi. Intanto arrivò per primo e per circa un anno ebbe il mercato dell’Home Video tutto per sé, prima che nel 1976 la JVC lanciasse il VHS; inoltre la qualità dell’immagine e del suono offerta dal Betamax era generalmente considerata superiore. La storia di questi due standard è un esempio da manuale di come, quando diverse tecnologie competono per conquistare un nuovo mercato, non sia sempre quella tecnicamente migliore ad affermarsi. Nonostante l’inferiorità tecnica, infatti, furono diversi elementi di carattere strategico a fare la differenza a favore del VHS. Prima di tutto, una più accorta politica di accordi con altri produttori, che portò dalla parte del VHS quattro case giapponesi nonché la potente Rca. Inoltre, il costo inferiore e la maggiore durata delle cassette VHS (che arrivavano a tre/quattro ore contro le due del Betamax) si rivelarono decisivi e permisero a questo formato di conquistare il ricchissimo mercato del videonoleggio. Le fortune del Betamax iniziarono a calare rapidamente dalla metà degli anni ’80, mentre il VHS vendeva tre volte tanto. Nel 1998, la Sony accettò almeno in parte la sconfitta e iniziò a produrre registratori e nastri VHS, pur non abbandonando la produzione e la promozione del Betamax. Già dal 1998 i registratori Betamax non erano più commercializzati fuori dal Giappone. Nel dicembre 2002, con solo 2800 macchine vendute nell’ultimo anno, la Sony decise che era giunta l’ora di dire addio al Betamax e lo mise fuori produzione. Che sul mercato della videoregistrazione non ci fosse spazio per più di un concorrente lo dimostrò anche il fallimento del Video2000, lanciato dalla Philips nel 1980: utilizzava una cassetta un po’ più grande del VHS e registrabile su due lati, in modo da arrivare fino a otto ore di registrazione. Ma ebbe vita brevissima e nel 1986 uscì definitivamente di produzione. Gli anni ’80, a cui siamo ormai arrivati, furono comunque un periodo molto favorevole per le nuove tecnologie. Basti pensare che nel 1982 arrivò il compact disc e fu un successo inarrestabile su tutta la linea: per rimpiazzare il vecchio disco in vinile sono bastati pochi anni. Così sembrò naturale provare a fare la stessa cosa con l’audiocassetta e sostituirla con un formato digitale. I produttori di elettronica ci provarono prima con il DAT, Digital Audio Tape, una versione consumer dei nastri professionali usati in studio di registrazione: ma la resistenza dell’industria discografica, terrorizzata da un supporto digitale registrabile che avrebbe permesso di fare copie della stessa qualità dell’originale, ne frenò lo sviluppo, proprio come capita oggi con l’Mp3. La Philips non si diede per vinta e ci riprovò all’inizio degli anni ’90 con la DCC (Digital Compact Cassette), lanciata in pompa magna nel 1991 come la nuova rivoluzione dell’ascolto musicale: l’equazione era apparentemente semplice, la DCC stava alla cassetta come il compact disc stava al Long playing. In più, per non pestare i piedi a nessuno, la Philips aveva inserito un sistema di protezione del copyright che impediva la duplicazione di cassette originali. Nonostante questo, (o forse proprio per questo) la DCC rimase sugli scaffali dei negozianti. Forse il pubblico cominciava ad averne abbastanza di comprare un nuovo ritrovato tecnico ogni sei mesi. Oppure, tutto sommato la cassetta va bene così: poco costosa, magari con una qualità del suono non eccellente ma pratica e facile da usare. Per questo, forse, le vendite di lettori DCC sono state scarsissime e oggi il formato è completamente scomparso. Insieme alla DCC, tra l’altro, era arrivato sul mercato anche il MiniDisc della Sony: una sorta di incrocio tra una cassetta, un floppy disc e un compact, pensato come un walkman di lusso più che come una vera alternativa all’audiocassetta. Ha avuto un destino leggermente migliore di quello della DCC, soprattutto perché ha trovato impiego nelle radio dove ha in buona parte sostituito i registratori portatili usati per le interviste. Ma sono ben pochi quelli che lo usano per ascoltare musica. Siamo quindi agli anni ’90 e a una delle tecnologie più discusse ma anche meno utilizzate della storia: la realtà virtuale. L’idea nacque nei primi anni ’90 con il videogioco Virtuality, che grazie a particolari occhiali, cuffie e guanti permetteva per la prima volta al giocatore di essere completamente immerso nell’ambiente di gioco anziché vederlo semplicemente scorrere su uno schermo. Applicando alcuni sensori al corpo, il computer può seguire i movimenti del giocatore e generare suoni e immagini: l’audio multicanale permette di fare arrivare il suono da direzioni diverse, e gli occhiali, creando due immagini leggermente diverse per i due occhi, danno una visione tridimensionale. Tecnicamente, la realtà virtuale è tutta qua. Ma bastò perché fossero scritti fiumi di parole (e venissero girati metri di pellicola: ricordate il film ”Il tagliaerbe”?) discutendo come l’esperienza virtuale avrebbe trasformato le nostre vite e quali rischi comportasse perdere il contatto con il reale e con la nostra fisicità. Ma chi di noi oggi ha in casa questi oggetti? Chi li usa quotidianamente per ”vivere una vita virtuale”? Le tecnologie della RV sono oggi molto importanti in alcuni campi specifici, come l’addestramento dei piloti di aereo; oppure sono utilizzate nei musei per ricreare ambientazioni storiche andate perdute. Ma non si può certo dire che stiano cambiando le nostre vite. Forse la realtà virtuale non è stata proprio un flop, ma certo ha fatto molto rumore per nulla. Qualche anno più tardi, flop in piena regola è stato invece quello dello standard di telefonia Dect, o ”Fido” per il pubblico italiano: una sorta di super cordless, che permetteva di portarsi a spasso il telefono di casa per tutta la città. Questo grazie a un sistema di piccole antenne sistemate ogni 200-400 metri e collocate a un’altezza di 5-10 metri dal suolo. Geniale? Insomma. Nel 1997, dopo una prima fase di sperimentazione e con investimenti di 800 miliardi di vecchie lire, la Telecom lanciava questo servizio in 28 città italiane. Ma evidentemente ben pochi hanno ritenuto di avere bisogno di questa via di mezzo tra il cellulare e il telefono fisso. E così senza tanto clamore nel giugno del 2001 la Telecom interrompeva il servizio. Oggi molti di noi usano ancora telefoni cordless costruiti secondo lo standard Dect, ma visto che in giro non ci sono le apposite antenne non possiamo usarli fuori dalla nostra abitazione. Ma forse il flop dei flop, perché non fa che ripetersi ininterrottamente da oltre un secolo, è l’auto elettrica. E sì che era arrivata molto prima di quella a benzina: i primi veicoli da strada mossi grazie a batterie furono infatti costruiti negli anni ’40 del XIX secolo, mentre si dovette aspettare fino al 1885 perché Gottlieb Daimler costruisse la prima auto con un motore a scoppio. Ma poi fu proprio l’auto a benzina a prevalere, grazie al costo più basso del petrolio rispetto all’elettricità e al peso minore dei veicoli, che li rendeva più maneggevoli. Molti anni più tardi, tuttavia, l’inquinamento e le preoccupazioni per il petrolio che iniziava a scarseggiare riportarono in auge l’idea di un’automobile a batterie da ricaricare attaccando la spina. Ma fin dagli anni ’70, nulla di concreto è seguito ai molteplici tentativi di promuovere le vendite di auto elettriche. Per tutti gli anni ’80 e ’90 le maggiori case automobilistiche hanno avuto in listino modelli elettrici. Ad acquistarle, però, sono state per lo più amministrazioni comunali che le hanno messe in dotazione ai postini, come in diverse città francesi o tedesche; o le hanno sistemate in grandi parcheggi proponendo ai cittadini di noleggiarle per gli spostamenti urbani, come è accaduto a Torino nel 1994 tra l’indifferenza generale. La colpa in buona parte è della resistenza da par-te delle compagnie petrolifere: che farsene di auto elettriche senza una rete di ”distributori” dove ricaricare le batterie? E questi distributori non sono mai nati. Ma una parte della colpa è anche dell’ostilità di molti automobilisti verso un’auto più lenta e più goffa di quella a benzina. Vedremo ora se andrà meglio per l’auto a idrogeno: sul lungo periodo, d’altronde, non vi saranno alternative, perché prima o poi il petrolio si esaurirà e le auto a benzina e diesel avranno inevitabilmente fatto il loro tempo. Naturalmente la lista dei flop potrebbe proseguire: e proseguirà, c’è da scommetterci, perché nuove tecnologie vengono proposte in continuazione e non può esserci spazio per tutte. Ricordarsene può servire ad avere uno sguardo più disincantato, la prossima volta che un’invenzione ci verrà proposta come una nuova rivoluzione tecnologica. Nicola Nosengo