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 2004  marzo 05 Venerdì calendario

MÜLLER Marco

MÜLLER Marco Roma 7 giugno 1953. Sinologo. Ex direttore della Mostra di Venezia (2004-2011). Padre italo-svizzero e madre italo-greco-egizio-brasiliana. Ha studiato orientalismo e antropologia in Italia per poi conseguire il dottorato in Cina . Nel 1980 intraprende l’attività di critico e storico del cinema, crea e dirige collane di libri di cinema. Prima responsabile della programmazione, diventa direttore del Festival di Pesaro tra il 1986 e il 1989. Dal 1989 al 1991 è direttore del Festival di Rotterdam. Quindi approda in Svizzera, dove dirige Locarno (1991-2000). È stato (1998-2002) ed è tornato a essere (2004) responsabile di Fabrica Cinema di Benetton con cui ha scoperto e prodotto film come il Diciassette anni , premio per la regia a Venezia (1999) e No Man’s Land , Oscar 2002 per il miglior film straniero. Presiede anche le case di produzione Downtown Pictures (Italia) e Riforma Film (Svizzera). «Produttore cinematografico, antropologo, professore universitario, sinologo, profondo conoscitore delle culture dell’Estremo Oriente. È fin da ragazzo un cinéphile rigoroso, che rientrava al pensionato studentesco fuori orario dopo aver passato ore in una sala buia davanti a fantozziane maratone di cinema albanese. Direttore di Festival a Torino, Pesaro, Rotterdam e poi - per anni - di una rassegna piccola ma snobisticamente orgogliosa della sua diversità come quella di Locarno, piccola boutique svizzera che rifugge la banalità. Così quando [...] è stato nominato direttore della Mostra di Venezia, la reazione iniziale di molti osservatori era stata un’incuriosita perplessità: tra i dichiarati capi d’accusa contro il silurato predecessore de Hadeln c’era anche quello di aver partorito una Mostra “non abbastanza popolare”. E che l’uomo giusto per la successione fosse un produttore di film iraniani, bosniaci e cinesi come Müller era tutt’altro che evidente. Così il professore è finito promosso in cinema e in arte di sopravvivenza romana (ha saputo mixare astutamente i suoi amati maestri orientali con un nutrito drappello di kolossal hollywoodiani che lo hanno certamente immunizzato da possibili accuse politiche di snobismo), ma è stato severamente bocciato in organizzazione. [...]» (Matteo Persivale, “Corriere della Sera” 9/9/2004). «Esperto di manifestazioni cinematografiche, a lungo direttore del festival di Locarno, sinologo in grado di parlare il cinese corrente, produttore per “Fabrica” di Benetton di alcuni bei film di impegno civile: Il voto è segreto dell’iraniano Babak Pajami, Moloch del russo Sokurov, Diciassette anni del cinese Zhang Yuan, No man’s land, il più famoso, del bosniaco Danis Tanovich, vincitore un paio di anni fa dell’Oscar come miglior film straniero. Aria da intellettuale, occhialini compresi, ma modi informali, da ragazzo che non vuol crescere» (Simonetta Robiony, “La Stampa” 5/3/2004). «Ma insomma, è svizzero o romano? Alfiere del cinema d’autore o cultore del trash globale? Cinefilo estremo o scaltro produttore? Un intellettuale o un manager? [...] Si è detto e scritto di tutto. Un fuoco incrociato di notizie biografiche e appartenenze culturali e politiche. Un ritratto confuso. [...] Uomo internazionale fin dalla nascita (padre italo-svizzero, madre brasiliana-greca-egiziana); poliglotta (parla una valanga di lingue compreso il giapponese e diversi dialetti cinesi); sinologo per formazione approdato nel mondo del cinema quando, di ritorno da un lungo periodo di studi in Cina, si portò dietro film mai visti in Occidente e organizzò una rassegna epocale: Ombre elettriche, Torino 1981. Da lì parte la sua carriera di direttore di festival (o meglio “fabbricante” come precisa lui): Pesaro, Rotterdam, Locarno... E poi di “fabbricante di film”. Con Fabrica di Benetton produce Il voto è segreto di Babak Payami, Molokh di Alexandr Sokurov, Diciassette anni di Zhang Yuan fino a No man’s land del bosniaco Danis Tanovich che gli regala l’Oscar come miglior film straniero e lo convince a mettersi in proprio, fondando la Downtown Pictures. Ciò detto, la confusione è comprensibile: chi è davvero Marco Müller, uomo dalle molte vite, e cosa farà di Venezia? [...] “Khmer rosso del cinema d’autore? Mi oppongo. Chiunque abbia davvero seguito i miei festival, sa che non ho mai privilegiato una politica elitaria. Persino Ombre elettriche prevedeva ogni sera proiezioni di B-movie per il grande pubblico: musical, horror, thriller. Per il pienone eravamo costretti a mandar via la gente. A Rotterdam, poi, ho proposto prime mondiali di film firmati David Lynch, fratelli Coen, Dennis Hopper e gigantesche retrospettive di Nicolas Ray. E a Locarno la prima mondiale di Full Monty ha avuto un tale successo di pubblico da convincere la Fox a triplicare le copie già programmate. Stessa cosa per Tutti pazzi per Mary con boato del popolo alla scena dello sperma sui capelli. No, non sono affatto alfiere dei festival elitari. Amo il cinema popolare al punto che era sempre stato motivo di battibecco con Lino Micciché ai tempi di Pesaro: ‘Müller la smetti di riempirmi il programma con questi Pitigrilli del cinema giapponese?’”. E ritiene ingiusta anche l’accusa di sforare i budget? “È successo. Tre o quattro volte sui nove anni di Locarno siamo andati sotto di circa 150 milioni di franchi. Ma c’erano delle ragioni. Una per esempio fu Fuochi incrociati: la retrospettiva del cinema americano per i cinquant’anni del festival. Venti grandi registi, da Clint Eastwood a Steven Spielberg da Francis Ford Coppola a Martin Scorsese, hanno scelto un film dimenticato o misconosciuto. Molti di loro sono venuti a presentarlo personalmente. Naturalmente un’operazione così ha costi eccezionali. Ma, vorrei precisare, ho lavorato con un terzo del budget di cui ha goduto Locarno negli ultimi due anni”. Resta l’ombra di un conflitto d’interessi ventilato sia da Felice Laudadio che da suoi vecchi compagni di strada come Alberto Barbera. “Ci sono esempi ben più illustri di me: Robert Redford, patron del Sundance che da anni è attore-regista-produttore senza che questo sollevi scandalo pur nella puritana America. Tom Luddy, direttore del festival di Telluride, il più chic degli Stati Uniti, che è anche co-produttore con Coppola della Zoetrope. Non è scandaloso essere produttore e direttore, basta non presentare i propri film nei propri festival”. Ma anche non presentando i propri film si può fare una politica di “captatio benevolentiae”. “Il segreto per fare un bel festival è accontentare pochi e scontentare molti. Le selezioni pleonastiche fatte per compiacere tutti, non producono mai buoni risultati”. [...] Ho fatto parte di un gruppo di critici e studiosi, tutti “fabbricanti” di festival e retrospettive che credevano in un cinema senza etichette, senza divisioni fra genere popolare o d’élite, senza passaporti di nazionalità, senza schieramenti tra film indipendenti e kolossal delle major. Un gruppo la cui unica appartenenza era l’autentica passione per il cinema. Abbiamo perso i migliori di loro, i miei punti di riferimento di sempre se ne sono andati troppo presto: Enzo Ungari, Giovanni Buttafava, Marco Melani, Serge Daney critico dei “Cahiers du Cinéma” e Hub Bals, fondatore del festival di Rotterdam e grande distributore europeo. [...] Ma tutti noi fabbricanti di festival siamo stati in modo diverso fabbricanti di film. Ognuno ha sentito l’esigenza di creare piattaforme per permettere ai registi di realizzare i loro sogni nel cassetto. La produzione è lo sbocco spontaneo per chi non ha scelto una carriera puramente critica, ma ha portato il gesto critico in realtà organizzative. Come fece appunto Ungari. [...] Ho sempre diffidato della cinefilia pura e dura che aveva bisogno del cinema per comunicare con il mondo. Il cinema mi ha invece regalato un desiderio di vita vera. Volevo essere ‘bigger than life’ come i personaggi dei film”. La sua biografia è un po’ un film. “Più che altro un fumettone nazional-popolare. Sono partito per la Cina a 21 anni come borsista del governo italiano. Ho avuto un’educazione cinefila nelle salette del Filmstudio a Roma prima e nelle arene ricavate dai campi di basket in Manciuria poi. Ho vissuto in mezza Europa, ho vinto un Oscar [...] Si può essere glamour e istituzionali, ma anche estremi, apocalittici e border-line» (Alessandra Mammì, “L’espresso” 18/3/2004).