Varie, 4 marzo 2004
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Berggruen Heinz
• Berlino (Germania) 5 gennaio 1914, 23 febbraio 2007. «Non è da tutti aver collezionato uno dei più grandi tesori dell’arte mondiale. Non è da tutti aver attraversato il Ventesimo secolo, conoscendo personalmente molti degli artisti che stanno dietro quei capolavori, spesso instaurando rapporti di sincera amicizia. E non è da tutti poter vivere vicini, o letteralmente sopra, quello scrigno delle meraviglie. [...] “Un benemerito della Germania” ha detto di lui il presidente della Repubblica, Johannes Rau. [...] E come definire altrimenti un uomo, il quale anche nei momenti più bui della storia del suo Paese, esule e senza patria, “della quale venni privato da rozzi uomini in camicie nere”, non ha mai saputo e voluto rinunciare a dirsi e sentirsi tedesco di religione ebraica? E che, al termine di un periplo fortunato durato sei decenni, ha deciso di tornare, le mani piene di doni favolosi, proprio nella sua città, quella Berlino da dove, a 22 anni, era stato costretto alla fuga? All’inizio del 1996, in visita nella capitale tedesca, l’allora presidente israeliano, Eser Weizman, dichiarò di considerare inconcepibile che degli ebrei potessero ancora vivere in Germania dopo l’Olocausto. “No - ribatté Berggruen - comprensione e tolleranza sono tradizionali virtù ebraiche. Come si può voltare le spalle al Paese di Dürer e Goethe, di Beethoven e Brahms?”. Proprio in quelle settimane, Berggruen perfezionava il suo gesto di riconciliazione: il prestito decennale della sua collezione alla città di Berlino, un patrimonio inestimabile di 113 opere, firmate Paul Klee e Pablo Picasso, Paul Cézanne e Vincent Van Gogh, Henri Matisse e Alberto Giacometti. Aveva amato soprattutto il palazzetto neoclassico di August Friedrich Stüler, allievo del grande Schinkel, destinato a ospitare la Sammlung Berggruen: “Mi affascinò l’intimità degli spazi. Sembrava aspettassero proprio la mia collezione”. E lui, verrebbe di dire, che da allora può abitare insieme alla seconda moglie, Bettina, nell’appartamento al terzo piano dell’edificio. Quattro anni dopo, nel dicembre 2000, Berggruen donava la collezione (nel frattempo salita a 165 opere) al governo tedesco, per un prezzo simbolico, forse equivalente al valore di mercato di uno solo dei suoi quadri. Parlare con Heinz Berggruen è come parlare con la storia più bella e più alta del secolo breve, quella dell’arte. I personaggi, le amicizie, gli amori, gli affari, gli aneddoti che ne arricchiscono la vita compongono uno straordinario mosaico, che il nostro ha sintetizzato nelle sue memorie, prendendo a prestito il titolo di un quadro di Klee, Hauptweg und Nebenwege , strada principale e strade secondarie. Strada principale fu certo quella che lo condusse a Picasso, conosciuto a Parigi nel 1950 grazie al poeta Tristan Tzara, uno dei fondatori del Dada. Ne venne fuori una lunga collaborazione, Berggruen ebbe per anni il diritto esclusivo a trattarne stampe e disegni. “Era pieno di magnetismo, già nell’aspetto fisico sembrava fatto d’un solo getto, gli occhi enormi, il corpo vigoroso, era come se avesse voluto fare di se stesso un’opera d’arte. Il miscuglio di forza e sensibilità, che produce il particolare fascino delle sue opere, si esprimeva anche nella persona e nei gesti”. Sono tanti i ricordi con Picasso, vera ossessione di Berggruen, che definisce la sua arte “pura meraviglia”. Come quella volta, seduti da Chez Felix sulla Croisette a Cannes, in cui il pittore moriva dalla voglia di vedere una delle nuove banconote da 500 franchi, appena emesse dal governo francese. Racconta Berggruen: “Mi chiese se per caso ne avessi una con me. Gliela mostrai. Dopo averla esaminata, disse: ’Dovrebbero nominarmi ministro delle Finanze, così salverei il Paese dal caos economico’. Lo guardammo tutti con stupore. ’Semplice - aggiunse Picasso - in due secondi posso raddoppiare il valore di questa banconota’. Prese una matita dalla tasca e, in un attimo, disegnò una minuscola corrida nello spazio rotondo. ’Ecco- esclamò - adesso vale il doppio’”. In Francia arrivò nel ’47, dopo il congedo dall’esercito americano, al seguito del quale era tornato in Europa. Fuggito da Berlino nel ’36, quelli in America erano stati anni di formazione. Studente di arti visive a Berkeley, giornalista per il “San Francisco Chronicle”, curatore al Museum of Modern Art nella città sul Pacifico. A questo lavoro è legato il suo tempestoso rapporto con Diego Rivera, al quale fece da assistente per una mostra. Un giorno, il pittore messicano gli propose di visitare in ospedale sua moglie, Frida Kahlo, periodicamente in cura per i postumi di un grave incidente d’autobus. “Lei conoscerà mia moglie e ti innamorerai di lei” gli disse in francese Rivera, mescolando il lei al tu, prima di entrare. Così avvenne: “Mi sentii fortemente attratto da Frida come non lo ero mai stato stato da nessun’altra donna. Tornai a trovarla ogni mattina e in capo a pochi giorni decidemmo di lasciare San Francisco insieme”. Andarono a New York, trascorsero alcune settimane di focosa passione al Barbizon Plaza: “La nostra stanza era per noi più importante di qualunque altro posto della città” ricorda Berggruen. Fu una bellissima avventura, finì all’improvviso com’era cominciata: “Ci lasciammo piangendo”. Ma la storia con Frida Kahlo lo cambiò, facendogli sentire “l’infelicità di essere lontano dall’Europa e dalla patria”. Ci tornò da liberatore, rivide la Germania. A Berlino cercò la casa della sua infanzia, sulla Konstanzer Strasse, solo per ritrovare un cumulo di macerie. A Monaco, su incarico dei comandi alleati, diede vita a una rivista in tedesco, “Heute”, modellata sull’americana “Life”. Ma erano deviazioni, la sua strada principale lo spingeva verso Parigi. Prima all’Unesco, un lavoro offertogli dalla sua vecchia direttrice di San Francisco. Poi, l’apertura di una galleria e il grande salto nel mercato dell’arte, complici tre simpaticissime sorelle russe, che gli offrirono di comprare un portfolio con dieci litografie originali di Toulouse-Lautrec per mille dollari, rivenduto sei mesi dopo al doppio: “Quando mi chiedono con quale capitale ha cominciato, la risposta è semplice: non avevo nessun capitale, solo la convinzione di essere portato per questo lavoro”. La folla dei personaggi intorno a Berggruen è leggendaria. Gertrude Stein e Paul Eluard, sempre in bolletta, che gli regalò un Klee, purché acquistasse un Picasso avuto in regalo dal maestro. Greta Garbo e Louis Aragon. Simone Signoret e Yves Montand, che vivevano sopra la sua prima galleria. Gino Severini, Joan Miró e Raymond Queneau. Il barone Rothschild e Peggy Guggenheim, che acquistò da lui un importante quadro di Ferdinand Léger, se lo fece spedire a Venezia e poi cominciò a tirare sul prezzo concordato, rifiutandosi di pagare. Risolse il problema Ralph Colin, avvocato e collezionista newyorkese: fece bloccare i conti americani della ex moglie di Max Ernst, convincendola a versare il denaro pattuito. Su altre due figure vale la pena di ascoltare il ricordo del nostro splendido vegliardo. Henri Matisse, in primo luogo, conosciuto nel 1952, nel più insolito dei modi. “Durante un soggiorno nel Sud della Francia, cercavo sull’elenco telefonico un libraio di nome Matarasso e mi capitò sotto gli occhi il nome Henri Matisse, artista-pittore. Feci subito il numero, qualcuno gentilmente mi rispose che in quel periodo si trovava a Parigi. Tornatovi, feci la stessa cosa, consultai l’elenco e anche qui trovai la voce Henri Matisse, artista-pittore, 52 Boulevard Montparnasse. Telefonai, dissi che ero un giovane mercante d’arte e che avrei voluto acquistare dei disegni. Matisse, malato e costretto a letto, accettò di ricevermi. Mi sottopose a un interrogatorio, gli parlai di Picasso e di Klee, si mostrò più aperto”. Berggruen acquistò i disegni, ma da quell’incontro nacque anche la collaborazione dei “papiers découpé”, le celebri silhouette ritagliate, che Matisse si vergognava di esporre e invece fecero la fortuna del giovane gallerista, il quale per primo vi dedicò una mostra. Oggi, i “papiers découpé” sono considerati una fase fondamentale dell’opera di Matisse, oltre che una rivoluzione nella storia della pittura. L’altro personaggio è Gianni Agnelli, buon cliente e amico di Heinz Berggruen. Li univa fra l’altro l’amore per Klee, al cui nome è legato uno dei ricordi più affettuosi che Berggruen ha del presidente della Fiat. “Un giorno, dopo che aveva comprato da me un Severini, gli avevo chiesto se Klee gli sembrasse troppo tedesco. ’Al contrario - aveva risposto - senza Klee i moderni sarebbero più poveri. Se viene una volta a Sankt Moritz, ho alcuni Klee, che sono tra i miei preferiti e che sarò felice di mostrarle’. L’inverno seguente, ero in Engadina e gli telefonai. Si ricordò subito dei Klee e mi invitò per l’indomani sera. Aveva degli ospiti ufficiali a cena, ma era felice di poter sparire insieme a me con una scusa. “Arrivai dopo le nove, l’Avvocato mi presentò i suoi invitati, degli uomini barbuti, erano ministri del Kuwait. Poi si scusò e mi condusse in una stanza adiacente. Al muro erano appesi quattro o cinque splendidi quadri di media grandezza, tutti degli anni Venti, il periodo di Klee che amo di più. Ero impressionato e Agnelli se ne accorse. Gli chiesi se potevo guardarli dietro, perché spesso l’autore annotava interessanti indicazioni. ’Naturalmente - disse - lei qui è a casa sua’. Ma appena staccai il quadro si udì un rumore assordante, come in un bombardamento. Sembrava la fine del mondo. I ministri kuwaitiani si rifugiarono sotto il tavolo e ne uscirono solo quando il rumore cessò. Ci guardammo, pallidi e un po’ sconvolti. Cercai di scusarmi, ma Agnelli disse che era colpa sua, aveva dimenticato di staccare l’allarme. Pochi minuti dopo arrivò la polizia, controllò che tutto fosse a posto. I kuwaitiani si rassicurarono. Due anni dopo sarebbe cominciata la guerra del Golfo”. Nel 1980, Heinz Berggruen ha lasciato l’attività di gallerista per dedicarsi solo al progetto della vita. In realtà, ammette, per 35 anni è stato lui “il suo miglior cliente”. Ha dovuto fare scelte dolorose, separarsi da quadri che amava, pur di poterne comprare altri che riteneva essenziali per la sua raccolta. Senza mai perdere di vista la strada principale, quella di mettere insieme una grandissima testimonianza dell’arte moderna. Ma anche ora, che l’ha regalata al suo Paese, non si sente un mecenate: “Un mecenate compra le opere per quello che rappresentano, un collezionista per quello che sono, perché collezionare è una malattia incurabile”» (“Corriere della Sera” 4/3/2004).