Cinzia Gatti, Macchina del Tempo, marzo 2004 (n.3), 28 febbraio 2004
Qualche settimana prima del parto le femmine di lemure sifaka cominciano a cibarsi di piante ricche di tannini
Qualche settimana prima del parto le femmine di lemure sifaka cominciano a cibarsi di piante ricche di tannini. Da un certo punto di vista il loro comportamento potrebbe sembrare sconsiderato: i tannini, infatti, sono sostanze velenose utilizzate dalle piante per evitare che gli erbivori mangino le loro foglie, e danno un pessimo sapore ai frutti e alle altre parti della pianta in cui sono presenti. Queste sostanze, tuttavia, hanno anche un’altra proprietà: aiutano a eliminare i parassiti, favoriscono la produzione del latte nei mammiferi e spesso i veterinari le utilizzano per evitare gli aborti. Possibile che queste femmine di lemure seguano l’istinto e mangino queste piante per proteggere i propri cuccioli quando sono ancora in grembo? Difficile da dire, però resta il fatto che le scimmie che si cibano di queste foglie hanno molti meno aborti delle femmine che non lo fanno: se questo sia da attribuire ai tannini o a un tipo di ambiente meno stressante non è ancora chiaro; tuttavia, secondo Michael Huffman, primatologo dell’Università di Kyoto che alla descrizione di questo comportamento ha da poco dedicato uno studio sulla rivista ”Primates”, l’atteggiamento delle lemuri sifaka potrebbe costituire la prima forma documentata di automedicazione animale in gravidanza. Per chi ha un cane o un gatto domestico questo tipo di comportamento è abbastanza familiare: capita, a volte, che gli animali con cui dividiamo la casa si dirigano sicuri verso alcune erbe presenti in un prato, le mastichino rapidamente e poi le inghiottano, stimolando il vomito e regolarizzando così gli scompensi gastrointestinali di cui magari non ci eravamo nemmeno accorti. Il tutto senza incertezze sul tipo di pianta da utilizzare. un modo pratico ed efficace di curarsi con ciò che si trova in natura: ma come riescano questi animali a riconoscere le erbe che fanno al caso loro e come imparino a distinguerle dalle altre è ancora poco chiaro. Del resto, cani e gatti non sono gli unici a sfruttare sostanze presenti in natura a fini terapeutici: lo fanno gli uccelli, i rettili e le scimmie, e il modo più semplice per conoscere le loro abitudini è osservarli nel loro habitat naturale, dove possono reperire tutte le sostanze naturali di cui hanno bisogno. Per questo alcuni studiosi del comportamento animale hanno deciso di andare più a fondo, raccogliendo dati e osservazioni sistematiche, e hanno dato il via a un nuovo filone di studi e ricerche: la zoofarmacognosia, cioè la disciplina che studia gli armadietti del pronto soccorso degli animali cercando di capire se le loro strategie possono rivelarsi utili anche per l’uomo. Riassumiamo le tappe più importanti negli studi sull’automedicazione animale. La prima ad accorgersi che gli animali sono in grado di medicarsi con ciò che trovano in natura è stata, una trentina di anni fa, Jane Goodall. Nel Parco nazionale di Gombe, in Tanzania, aveva visto alcuni scimpanzé che inghiottivano, senza masticarle, foglie particolari e aveva notato che alcuni giorni dopo i loro escrementi contenevano meno vermi. Le foglie mangiate erano soprattutto quelle di una pianta chiamata Aspilia e avevano un gusto talmente sgradevole che gli animali stessi storcevano il naso prima di metterle in bocca. Nel 1985 il biochimico Eloy Rodriguez avanzò l’ipotesi che la sostanza responsabile dell’azione «antiparassitaria» dell’Aspilia fosse la tiarubrina, un agente battericida e fungicida presente in questa e in altre piante utilizzate a fini terapeutici dalle popolazioni locali. La tiarubrina, tuttavia, si trova soprattutto nelle radici della pianta, mentre è praticamente assente nelle foglie mangiate dagli animali. Fu Richard Wrangham, della Harvard University, a ipotizzare che il principio in grado di ripulire l’intestino dai parassiti non fosse tanto una sostanza presente all’interno della pianta, ma l’«effetto Velcro» delle foglie: la loro superficie ruvida e pelosa era l’ideale per catturare uova, larve e vermi, che in effetti rimanevano imprigionati e venivano espulsi. L’azione non era dunque di tipo chimico, ma meccanico. Alla stessa conclusione era arrivato Michael Huffman: il primatologo aveva notato che gli scimpanzé affetti da parassitosi intestinale mangiavano le foglie della Veronica, una pianta che conteneva veleni capaci di uccidere i parassiti, anche se non in quantità sufficiente a eliminarli, e le cui foglie avevano le stesse caratteristiche dell’Aspilia. Secondo Huffman sarebbero più di trenta le piante che scimpanzé e gorilla di varie regioni dell’Africa utilizzano come purga meccanica all’inizio della stagione delle piogge, quando le infezioni causate da vermi sono molto più frequenti. «Le piante sfruttano certe sostanze chimiche per difendersi dagli attacchi degli insetti e degli erbivori» osserva Michael Huffman. «Allo stesso modo, gli animali imparano che ci sono piante che possono essere velenose o tossiche e altre che invece sono utili per curare alcuni disturbi: una volta capita la differenza, inseriscono queste ultime nella propria dieta». Anche la terra, e in particolare l’argilla, aiuta a ristabilire gli equilibri dell’organismo. Alla fine degli anni Novanta, il biologo James Gilardi notò che alcuni pappagalli Macao, cui erano stati dati da mangiare semi contenenti alcaloidi tossici come la stricnina, si dirigevano verso la scogliera e beccavano l’argilla. Lo studioso allora preparò per un gruppo di uccelli un pasto a base di semi misti ad argilla e poco dopo vide che nel loro sangue era presente il 60% in meno di alcaloidi. Molto probabilmente l’argilla serve a neutralizzare l’azione tossica di alcune piante, come confermerebbero gli studi sugli elefanti, che leccano l’argilla quando sono costretti a cibarsi di piante velenose, e l’osservazione del comportamento di alcune popolazioni native, dove le madri hanno l’abitudine di applicare sulle ferite e sulle sbucciature dei bambini una poltiglia di argilla e saliva. E proprio la saliva resta il miglior medicamento naturale. Chi ha animali domestici avrà notato che, quando una parte del loro corpo è ferita o infiammata, si leccano. Questo comportamento, comune a moltissime specie, viene adottato per una ragione ben precisa. Nella saliva infatti sono presenti due proteine con caratteristiche assai particolari, le citochine: «Si chiamano Egf (epidermal growth factor) e Ngf (neural growth factor), vengono prodotte in una regione del cervello chiamata ipotalamo e attraverso le fibre nervose arrivano fino alle ghiandole salivari» spiega Giovanni Denina, veterinario naturopata di Pinerolo e docente alla Libera università di Naturopatia applicata di Luserna San Giovanni (Torino). «Queste sostanze sono attive sulle cellule dell’apparato gastrointestinale e hanno un effetto protettivo sulle mucose e sulla pelle: quando l’animale si lecca, le citochine vengono a contatto con la ferita e stimolano la cicatrizzazione. Per questo un animale ferito o che ha subito un intervento guarisce più in fretta se ha la possibilità di leccarsi». Ed è anche la ragione per cui, se provate a fasciare un arto infortunato al vostro cane o al vostro gatto o ad applicare un disinfettante, questo farà di tutto per togliere le bende e leccare via il medicinale. Leccarsi le ferite è un comportamento istintivo: «Ha basi genetiche. è un meccanismo che molto probabilmente è stato acquisito in 30-40 milioni di anni» sostiene Giovanni Denina. Ma che dire invece della capacità di cercare e scegliere piante medicamentose? In questo caso l’abilità nella scelta di determinate erbe richiede una conoscenza molto più complessa del proprio habitat. «In molte specie animali la capacità di automedicarsi è in qualche modo presente e già determinata: per il cucciolo, però, è necessario osservare ciò che fanno i genitori e apprendere attraverso l’imitazione certi tipi di comportamenti» continua Denina. Insomma, per poter praticare l’arte medica animale è indispensabile avere un buon maestro. «Quando parliamo di automedicazione dobbiamo distinguere almeno due tipi di comportamento» osserva Roberto Marchesini, etologo e zooantropologo alle università di Milano e Bologna. «Ci sono comportamenti che sono stati selezionati e amplificati perché comportano un vantaggio evolutivo per chi li adotta: per esempio, il corvo che si sfrega piume e penne nella cenere per eliminare i parassiti ha un comportamento che viene amplificato nella generazione successiva e viene via via inserito nello schema genetico dell’animale, attraverso un meccanismo di tipo darwiniano». Questo tipo di capacità viene selezionato e rimane poi nel corredo dei discendenti. «Altri comportamenti, invece, possono diventare abitudini di un gruppo e si trasmettono di generazione in generazione da parte dei genitori: è una sorta di patrimonio culturale». Questo secondo tipo di azione è quello che si riscontra nell’ambito dell’automedicazione con piante, radici o bacche: gli individui anche molto piccoli imparano a riconoscere le sostanze più utili in caso di malattia o infezioni osservando ciò che fa la madre. L’istinto è importante, ma la possibilità di seguire un preciso modello di comportamento lo è ancora di più: « in questo modo che gli scimpanzé insegnano ai propri piccoli a utilizzare le piante medicamentose: lo fanno quando i cuccioli sono ancora in tenera età e questo insegnamento è importantissimo, tanto che i piccoli che vengono separati dalla madre troppo presto non sono capaci di scegliere le piante per medicarsi». Cinzia Gatti