Arianna Dagnino, Macchina del Tempo, marzo 2004 (n.3), 28 febbraio 2004
Musica, maestro! Puntuale come sempre, anche quest’anno il Festival di Sanremo (in arrivo i primi di marzo) pervaderà l’etere con le sue note pop
Musica, maestro! Puntuale come sempre, anche quest’anno il Festival di Sanremo (in arrivo i primi di marzo) pervaderà l’etere con le sue note pop. L’appuntamento con la musica italiana (e non solo) è ormai entrato nella consuetudine, eppure riesce ancora a catalizzare milioni di spettatori in tutto il mondo. Perché, si tratti di espressioni colte o di canzonette da canticchiare in riva al mare, la musica continua a essere uno dei grandi intrattenimenti della vita. Non solo: è un vero e proprio toccasana. Che l’ascolto di determinate melodie produca un senso di benessere, aiuti a rilassarsi e in generale migliori il tono dell’umore ora sono gli stessi scienziati a confermarlo. In particolar modo i neurologi, che hanno scoperto quanto il nostro cervello sia ”musicale”. Al punto che, a loro dire, in realtà sarebbero le sinfonie dei neuroni a produrre melodie dalle vibrazioni e a farci sciogliere o rabbrividire per un brano ascoltato. In sostanza il cervello potrebbe essere considerato come una vera e propria sala da concerti, entro la quale ha origine la musica. «La musica si forma prima di tutto nella testa» spiega infatti Eckart Altenmüller, neurologo e fisiologo dell’Istituto Superiore di Musica e Teatro di Hannover. A dimostrare nella pratica che la musica proviene dall’interno e non dall’esterno ci sono alcuni casi esemplari, come quello della scozzese Evelyn Glennies – una delle migliori batteriste del mondo – che è sorda e percepisce i ritmi con i piedi nudi e con il corpo. O come quello del grande Beethoven, il quale, arrivato sordo alla vecchiaia, percepiva le vibrazioni della propria musica appoggiando direttamente la testa sulla cassa di risonanza del pianoforte o addentando un’assicella di legno appoggiata alla cassa. Che la capacità di ascoltare e apprezzare la musica sia in sostanza qualcosa di innato nell’essere umano lo confermano ora anche gli studi di Steven Morrison e Steven Demorest, entrambi ricercatori presso la Scuola di musica dell’Università di Washington, i quali hanno messo in evidenza come esistano delle regolarità universali, al di là delle differenze culturali ed educative, nel modo di percepire armonie e melodie. Attraverso la risonanza magnetica funzionale (una particolare tecnica che consente di visualizzare le aree del cervello che si attivano in risposta a un determinato stimolo) i due studiosi sono riusciti a determinare che le aree del cervello coinvolte durante l’ascolto musicale sono le stesse per i vari soggetti presi in esame, di qualunque formazione o estrazione culturale essi siano. «Le aree attivate del cervello sono il giro temporale traverso destro e il giro temporale superiore sinistro» specifica Morrison, cioè aree che si trovano nella corteccia, dove avviene l’elaborazione più fine delle molteplici informazioni provenienti dall’esterno. Notevoli differenze si sono invece riscontrate tra chi fa attivamente musica (a livello professionale e non) e chi no. Nei primi, infatti, si attivano ”anche” altre aree del cervello: «Questo ci porta a credere» aggiunge Morrison «che la formazione, cioè il percorso di acculturamento musicale, più che il contesto culturale, influenzi gli schemi dell’attività cerebrale. Lo studio, cioè, influisce sul modo in cui un allievo approccia la musica molto più della familiarità con un particolare stile musicale». Quanto sia rilevante l’influsso esercitato dal suonare musica sullo sviluppo del nostro sistema nervoso lo dimostrano soprattutto le ricerche condotte presso la clinica universitaria neurologica di Heidelberg. Qui gli scienziati tedeschi hanno scoperto che, nei musicisti esperti, la materia grigia in determinate regioni delle circonvoluzioni trasversali di Heschl è maggiore anche del 130 per cento rispetto ai soggetti senza preparazione musicale. Inoltre, in questa regione del cervello il numero di cellule nervose attive nei professionisti è risultato doppio rispetto a chi non fa musica. Ma c’è di più: in base a quanto emerge dagli studi dei neurologi, prima si ha a che fare con la musica (in termini di età) e meglio è. Sempre da Heidelberg, infatti, arrivano i risultati in base ai quali si è potuto stabilire che i musicisti che avevano ricevuto le loro prime lezioni a meno di sette anni presentavano un migliore scambio di informazioni fra gli emisferi del cervello: nel loro caso il corpo calloso, che collega la metà destra e quella sinistra del cervello, era più grande rispetto ai musicisti che erano entrati in contatto con il loro strumento più tardi. Inoltre, nei musicisti professionisti le aree di elaborazione della sintassi musicale si spostano dall’emisfero destro al sinistro, quello che domina il linguaggio, cosa che probabilmente corrisponde a una trasformazione verso una maggiore elaborazione analitica, come quella necessaria per la parola. Evidentemente, l’esercizio costante e ripetuto di uno strumento musicale modifica molto velocemente gli schemi di attività della corteccia cerebrale e favorisce le connessioni dei neuroni. Al punto che Eckart Altenmüller è arrivato a dichiarare che la musica è «lo stimolo più forte che conosciamo per la ristrutturazione neuronale». Fare musica richiede quindi, come si è visto, l’uso di parti diverse del cervello. Alcune servono per scomporre i brani ascoltati o eseguiti nelle loro varie componenti (ritmo e tempo, armonia e melodia, pause, battute, intervalli) e altre aree specifiche vengono poi coinvolte per rimettere queste parti di nuovo insieme in un tutt’uno organico. Le più recenti conoscenze neurologiche arrivano così a sostenere le tesi di Hans Günther Bastian, pedagogo musicale di Francoforte, secondo il quale soprattutto il suono degli strumenti può favorire le prestazioni più diverse relative all’intelligenza. A patto, però, che si faccia musica attivamente (almeno per un periodo di quattro anni, specifica Bastian) e non si sia solo semplici ascoltatori passivi. Ciò significa che la musica avrebbe il potere di rendere più intelligenti? Per certi aspetti sì, perlomeno se si ritengono validi i risultati di uno studio condotto proprio dal professor Bastian, che per sei anni ha messo a confronto lo sviluppo mentale scolastico di figli di operai di Berlino preparati musicalmente con quello di altri ragazzi della stessa scuola cresciuti senza l’insegnamento di uno strumento. Ebbene, il ricercatore ha riscontrato nei primi un aumento del quoziente di intelligenza pari fino a circa sei punti, in particolare nel campo delle capacità spaziali-matematiche, che poteva essere ricondotto allo stimolo musicale, soprattutto se questo veniva elargito prima dell’ottavo anno di vita. Inoltre, Bastian ha riscontrato che i bambini che facevano musica riuscivano anche a essere socialmente più abili e competitivi. Un risultato eccezionale. Porta a conclusioni simili anche uno studio condotto da Wilfried Gruhn dell’Università di Friburgo, i cui risultati mostrano come i bambini che studiano musica possono contare su un vantaggio cognitivo da sei mesi a due anni rispetto ai loro coetanei e ottengono un punteggio sopra la media nei test d’intelligenza. Dopo anni di insegnamento e di pratica come musicoterapeuta, anche il maestro Silvio Feliciani è convinto che la teoria del vantaggio cognitivo sia sensata. A una condizione: «Affinché l’evoluzione del pensiero possa subire condizionamenti attendibilmente riconducibili a una pratica musicale è necessario che la stessa abbia avuto il tempo di incidere e che questo sia avvenuto nel preciso momento dello sviluppo del sistema nervoso centrale, cioè entro i primi dieci anni di vita». Che il cervello possa venire favorevolmente plasmato in base alla cultura musicale ricevuta fin dalla più tenera età lo va sostenendo da tempo anche Edwin E. Gordon, musicista (diplomato alla Eastman School of Music), contrabbassista nella jazz band di Gene Krupa e al contempo ricercatore (laureato in Music Education e Ph.D. in scienze matematiche e probabilistiche) alla Ohio University e all’Iowa University, dove ha sviluppato nel corso degli ultimi quarant’anni la sua ”Music Learning Theory”, divulgata in un libro ora pubblicato anche in Italia, ”L’apprendimento musicale del bambino dalla nascita all’età prescolare” (Curci). «La musica è una peculiarità dell’essere umano e, al pari delle forme d’arte e del linguaggio, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’individuo» sostiene lo studioso. «Attraverso la musica, infatti, il bambino sviluppa capacità di introspezione, di comprensione degli altri e della vita stessa e, cosa forse più importante, impara a migliorare la sua capacità di alimentare liberamente la propria immaginazione e creatività». E non è tutto: «Tutta la teoria di Gordon nasce proprio da questo parallelismo con il linguaggio» conferma Andrea Apostoli, presidente dell’Aigam (Associazione italiana Gordon per l’apprendimento musicale, con sede a Roma) «perché, come è noto, un neonato impara a parlare ascoltando la madre e le persone intorno a lui, per imitazione e attraverso l’autoapprendimento. Ma allo stesso modo, il neonato è in grado di apprendere anche la sintassi musicale in autonomia, se questa diventa veicolo di comunicazione all’interno di una relazione». Musica come parole, in altri termini. Per questo il compito dell’adulto, che sia il genitore o l’insegnante (anche in Italia ora si tengono corsi ispirati alle teorie di Gordon), è, soprattutto nella fascia di età da zero a cinque anni, quello di instaurare un dialogo musicale col bambino, rispettandone i tempi di apprendimento e senza chiedergli saggi di competenze acquisite nel breve periodo. «La teoria dell’apprendimento musicale di Gordon» spiega Apostoli «prevede che il bambino possa prima di tutto sviluppare, con la ”guida informale” ricevuta in età prescolare, la capacità di comprendere internamente la sintassi musicale, definita audiation, una sorta di pensiero musicale. Questa capacità è fondamentale perché egli possa comprendere la musica, sia come ascoltatore sia come soggetto attivo che fa musica, ed è indispensabile per l’improvvisazione. Solo dopo di ciò potrà intraprendere un più formale corso di istruzione musicale». Per ottenere questi risultati Gordon suggerisce come strumenti didattici per i piccoli sotto i sei anni la sola voce e il movimento del corpo: «Il modo migliore per aiutare il bambino a scoprire la propria voce cantata è quello di cantare per lui: così come prende a modello l’adulto che si serve della voce parlata, farà lo stesso con la voce cantata». Perché, sostiene sempre Gordon, «la musica non sta nello spartito o nello strumento musicale ma dentro l’individuo». Un’altra voce che si aggiunge al coro è quella di una vera esperta dei rapporti tra musica e infanzia: «Quello che è importante sottolineare» specifica Federica Braga, diplomata in pianoforte al Conservatorio di Milano e docente dei corsi Musicainfasce® dell’associazione Aigam, «è che l’intento di Gordon non è quello di creare dei geni o dei musicisti professionisti ma di consentire a tutti di sviluppare la propria innata attitudine musicale e di incrementare il livello generale di cultura musicale della gente». Partendo proprio dai più piccoli, visto che, secondo Gordon, l’attitudine musicale non è mai così alta come alla nascita. Successivamente, se il bambino non è immerso in un ambiente musicale idoneo, tale parametro non può che diminuire nei suoi valori. In base alla sua quarantennale attività di ricerca, in parte riassunta nel testo ”Introduction to Research and the Psychology of Music”, Gordon arriva a sostenere la tesi – confermata anche da altri studi in questo settore – secondo la quale in fase neonatale, cioè nei primi 18 mesi di vita, vi sarebbero nei bambini abilità naturali in campo musicale che, se non vengono ”catturate” e stimolate, vanno perdute. «Il processo di sviluppo e modellamento musicale a livello cerebrale» afferma Gordon «prosegue poi fino ai nove anni, per poi stabilizzarsi». Ecco perché sono sempre più numerosi gli esperti convinti che la rinuncia alla stimolazione musicale nel bambino equivale praticamente a reprimere la sua maturazione emozionale e intellettuale. Insomma, oltre che un potente stimolatore neuronale, la musica si sta rivelando efficace anche a livello terapeutico, per mitigare – e in alcuni casi addirittura sanare – molti disturbi, sia negli adulti che nei bambini: «Si va dalle patologie psichiche ai disturbi del linguaggio e della coordinazione visivo-motoria, dai problemi relativi all’attenzione, alla memoria e all’apprendimento alle difficoltà di socializzazione» afferma Feliciani. Due sono in genere le scuole di pensiero, sia in Italia che all’estero, relative all’utilizzo della musica a fini terapeutici. «La prima, definita musicoterapia attiva» prosegue Feliciani «implica un coinvolgimento personale dei pazienti: essi cioè partecipano all’improvvisazione di una produzione musicale con proprie espressioni che vengono rilevate, rispecchiate ed elaborate dall’operatore in chiave psicoanalitica. Nella seconda scuola di pensiero, conosciuta come musicoterapia passiva, «il paziente si predispone ad ascoltare una produzione sonora. principalmente l’operatore che utilizza moduli musicali accuratamente preselezionati per indurre precise stimolazioni o accompagnare e facilitare l’elaborazione dell’inconscio». Alcuni studi in questo settore rivelano che la musica di Mozart è quella che maggiormente si presta a un utilizzo in campo medico, perché la sua struttura regolare e bilanciata ricorda il ritmo cardiaco e respiratorio dell’uomo, favorisce il rilassamento ed è utile nella terapia del dolore e per alleviare gli attacchi di cefalea muscolotensiva, il tipo di mal di testa più frequente (oltre il sessanta per cento dei casi), strettamente correlato all’ansia e allo stress. Una ricerca condotta all’ospedale di Nara, in Giappone, ha inoltre dimostrato che la musica classica in generale agisce sugli asmatici, raddoppiando e portando alla normalità la quantità di aria inalata. Alfred Tomatis, un otorinolaringoiatra che da oltre quarant’anni si occupa del problema dell’ascolto e dei suoi molteplici risvolti audiologici e psicolinguistici, ha un’altra interessante teoria: ritiene che il suono sia un vero e proprio alimento del cervello e che l’orecchio sia l’organo preposto a fornirgli energia. «Ascoltare l’universo (titolo anche di un suo libro pubblicato da Baldini&Castoldi, ndr)» dice Tomatis «è un viaggio alla scoperta di quel mare sonoro, invisibile ma reale, dentro cui ciascuno di noi si trova immerso fin dalla nascita. Anzi da molto prima, come dimostrano gli studi sulla percezione sonora durante la vita intrauterina». Secondo lo studioso, i suoni ad alta frequenza danno energia al cervello, mentre i suoni a bassa frequenza gli sottraggono energia, lo depauperano. Ecco perché, a suo parere, la musica di Mozart, che è ricca di alte frequenze e non è stancante (in particolare i concerti per violino e quelli per pianoforte e orchestra, come per esempio il Concerto K 482), esplica il massimo effetto terapeutico sul corpo umano. «Mozart è davvero un’ottima madre» dice Tomatis «la sua musica ha sollecitato la rinascita dell’udito di molti bambini». Michael Thaut, direttore del Centro per la ricerca musicale biomedica della Colorado State University, invece, racconta di veri e propri miracoli. Attraverso la musica, paralitici avrebbero riacquistato l’uso delle gambe e muti la parola. Grazie alla musicoterapia, che viene progettata e applicata da Thaut secondo principi scientifici, il tasso di guarigione dei pazienti di attacco cardiaco sarebbe salito dal 10 al 25 per cento. Ma la stessa sfera affettiva dell’individuo e il suo equilibrio psicofisico – come dimostrato da molteplici studi ed esperienze in vari Paesi – traggono enorme vantaggio dalla musica, che, superando i filtri logici e analitici della mente, è capace di entrare direttamente in contatto con i sentimenti e le passioni più profonde, stimolando la memoria e l’immaginazione fino a provocare vere e proprie reazioni fisiche. Attraverso il sistema neurovegetativo involontario, infatti, la musica penetra in ogni parte del corpo, anche sotto la pelle, per poi arrivare dritta al cervello. Per questo gli scienziati parlano di ”orgasmo epidermico” quando descrivono i brividi di piacere del corpo intero, accompagnati da pelle d’oca, che la maggior parte delle persone prova in occasione dell’ascolto di musica. Quale tipo di musica possieda questo effetto benefico, in effetti, sembra variare da persona a persona. «Ciò che piace dal punto di vista musicale riguarda in fin dei conti la biografia individuale» afferma Reinhard Kopiez, presidente della Società di Psicologia della Musica ad Hannover. Un esempio? Lo stesso Kopiez (insieme al collega Guido Brink) ha studiato anche i cori da stadio: come nascono le nuove canzoni, quali rituali si trovano alla base e attraverso quali mezzi viene coordinato il canto di massa. I due musicologi hanno scoperto che le caratteristiche strutturali delle melodie producono euforia tra coloro che partecipano al canto. Già, perché la musica non è semplicemente una forma di arte: è un modo per conoscere se stessi e tutto ciò che ci circonda. Il canto e i suoni possono guarire i mali del corpo e dell’anima, riportandoci a contatto con il nostro ”mare sonoro” interno. D’altronde, come aveva già acutamente osservato William Shakespeare, «l’uomo che l’armonia di dolci suoni non commuove è nato per il tradimento, le rapine, e gli inganni». Arianna Dagnino