Fiamma Arditi, "La Stampa" 27/2/2004 pagina 27, 27 febbraio 2004
«Non vedo l’ora di vederla». Bob Rauschenberg ha lasciato l’isola di Captiva, nel golfo del Messico, ed è passato da New York per andare a Ferrara all’apertura della sua mostra al Palazzo dei Diamanti
«Non vedo l’ora di vederla». Bob Rauschenberg ha lasciato l’isola di Captiva, nel golfo del Messico, ed è passato da New York per andare a Ferrara all’apertura della sua mostra al Palazzo dei Diamanti. « stata organizzata come una retrospettiva - racconta - va dalle tele monocrome degli anni Cinquanta fino ad oggi, alle ultime sculture in argento, oro, bronzo». La mostra di Ferrara con novanta opere selezionate da David White, il curatore della sua collezione personale, e da Susan Davidson, che nel 1997 aveva curato la gigantesca retrospettiva al Guggenheim di New York con quattrocento opere, è la prima mostra completa dedicata a Bob Rauschenberg da un museo italiano. In Italia, a Roma, Bob era arrivato la prima volta nel 1952 con Cy Twombly e aveva cominciato a esplorarla, a fotografarla. La sua casa vera, da trent’anni sta nell’isola a sud della Florida. A New York, nel vecchio palazzetto, un ex-orfanatrofio accanto al Public Theater, ci ritorna quando non ne può fare a meno. Ma Bob è cittadino del mondo. I suoi progetti sono sempre un ponte tra i paesi, tra gli strati sociali, i mezzi e gli strumenti per lavorare. Rauschenberg è al di fuori delle correnti, delle etichette. «Non è un outsider perché è un capo», diceva di lui Leo Castelli, che con la prima moglie Ileana Sonnabend aveva scoperto e lanciato il suo lavoro a metà degli anni Cinquanta. Quello che aveva colpito i due talent scout del mondo dell’arte era l’immaginazione, il fatto che Bob aveva cominciato a mettere nelle sue opere tutto quello che gli serviva. Compresa l’immondizia, cosa che nessuno prima di lui aveva osato fare. Da allora in poi aquile impagliate, pezzi di legno, galli, coperte vecchie diventarono elementi indispensabili di quelle tele, battezzate poi Combines. Erano una combinazione di tutto e dimostravano come era riuscito ad abbattere le barriere tra pittura e scultura, tra bello e brutto, tra l’America e il resto del mondo. Eppure aveva cominciato a costruire la prima barriera a undici anni quando gli nacque l’unica sorella, Janet. I genitori gliela piazzarono in camera e lui per avere uno spazio proprio creò una parete a scomparti e la riempì di scatole, barattoli, oggetti qualunque per isolare il suo spazio da quella piccola intrusa. Da allora in poi Bob ha cominciato a vivere la sua avventura ispirato dalla curiosità, dalla voglia di scoprire, elaborare, combinare, mettere in comunicazione. Da piccolo raccoglieva per strada gli animali, cuccioli di cani, gatti, papere, qualche rana, una volta recuperò anche una capra. Da grande la passione di raccogliere l’ha coltivata e una capra imbalsamata l’ha sistemata pure su uno dei suoi combines. La fotografia, il ballo, il teatro diventano parte integrante del suo viaggio. Si arruola in marina, si congeda e finisce a Los Angeles. Qui fa di tutto: l’illustratore, il vetrinista, lo scenografo. Mette da parte i soldi e nel 1948 va a studiare a Parigi. All’Académie conosce Simone Weil, che nel 1950 diventerà sua moglie e la madre dell’unico figlio, Christopher. Con lei scopre il mondo dell’arte parigino. Per la prima volta vede dal vero opere di Henri Matisse e Pablo Picasso. Nel frattempo dipinge furiosamente. Anche con le mani. Al Black Mountain College, nel North Carolina, dove finisce al ritorno dalla Francia, studia col maestro della Bauhaus Josef Albers, « lui che mi ha insegnato a lavorare coi materiali più disparati e a sviluppare le tecniche per combinare insieme struttura, tessuto e fattura». Al Black Mountain comincia la sua amicizia col compositore John Cage, col ballerino-coreografo Merce Cunningham con cui continuerà a lavorare, con Cy Twombly. A New York segue i corsi dell’Art Student League e dipinge. Betty Parsons, la gallerista di Jackson Pollock, Mark Rothko, Barnett Newman, Clifford Still gli propone una mostra. Lui non si fa pregare. La sera dell’inaugurazione, il 14 maggio 1951, conosce Leo Castelli e Ileana Sonnabend. Il resto è storia. Il primo premio alla Biennale di Venezia del 1964 è solo la conferma di quello che negli Stati Uniti sapevano già. Bob Rauschenberg è grande. Una specie di turbina, capace di trasformare l’ordinario nello straordinario. Punto di arrivo? Non ne ha. Da ragazzo non voleva diventare un grande artista? «Non particolarmente - dice - volevo solo che nessun altro artista fosse migliore di me». Migliore o no, Rauschenberg è unico. I critici hanno cercato di ingabbiarlo nella Pop Art. In realtà lui parte da elementi poveri, oggetti qualunque, ma poi li frulla, li giustappone, li scompone. Alla fine una sua opera non è catalogabile da nessuna parte. Appartiene a un momento speciale della sua vita. Autobiografico? «No, a dire la verità non parto mai da elementi autobiografici. Certo, ogni tanto mi capita di guardare un mio quadro e di dire: toh, quello sono io!». Per esempio quando le capita? «Quando ritrovo in un mio quadro un mare, una spiaggia. Cose semplici. Allora mi sento a casa». La sua casa è al mare da più di trent’anni, giù in Florida. Non ne poteva più di New York. «Era un periodo molto incasinato. Mi sembrava che tutti i miei amici stessero lasciando le mogli. Mi sentivo quasi responsabile per loro. Ero a disagio. Non sapevo cosa fare. Andai da un indovino e mi feci leggere le carte. Mi disse che io non c’entravo niente con quello che mi stava succedendo intorno. Mi disse che dovevo andare al sole, vicino all’acqua. Dovevo stare lontano dalle montagne. Meno male, perché le montagne non mi piacciono. Bloccano la vista». E poi separano. «Impediscono di guardare lontano. Penso che ognuno deve trovarsi il paesaggio che gli si addice. Io ho vissuto sempre vicino al mare, fin da quando sono nato a Port Arthur, in Texas». Quindi viene dallo stesso stato di Bush, osserviamo. E lui: «Lo detesto, lo detestiamo tutti. Possiamo solo vergognarci di lui. Adesso abbiamo bisogno di un presidente vero, non di un figlio di papà, che va a mettersi nei guai e chiede aiuto a mammà». Però si è circondato di persone col cervello: «They have funds, but not fun». Un gioco di parole per dire che hanno fondi, ma non si divertono. E del partito verde di Nader, cosa pensa? «Un mascalzone anche lui. I democratici lo hanno pregato di rimanere fuori, di non disperdere i voti, ma lui niente. Il suo io è troppo forte. Pensa solo a se stesso, non gliene importa della condizione in cui è ridotto il suo paese con l’attuale amministrazione». Qualcuno sostiene che è finanziato proprio dai repubblicani. «Da loro ci possiamo aspettare di tutto». A che cosa sta lavorando, in questo periodo? «A una serie di Scenarios. Nella mostra di Ferrara ce n’è uno di due metri e tredici di altezza per tre e mezzo di larghezza». Usa sempre la fotografia come base dei suoi quadri? «Sì, ma da quando ho avuto il primo ictus un anno fa e il secondo dopo sei mesi, ho il lato destro semiparalizzato». Però ha ripreso la sua routine. «Sarei diventato pazzo se non avessi potuto più lavorare». E le foto? «Per fare una fotografia devo tenere la macchina con una mano e schiacciare il bottone con l’altra. Per cui non posso più farle». E allora? «Dò la macchina a chiunque esca e loro scattano al posto mio. Non mi importa cosa fotografano». Come mai è così attratto dall’ordinario? «Perché di solito tutti lo ignorano. Tanti artisti cercano di spezzarti il cuore e magari spezzano il proprio. Invece a me dà molta più soddisfazione la calma della mediocrità». Perché è una base neutra su cui può intervenire come le pare? «Sarà così». E l’Italia? « il mio paese preferito. Adoro gli italiani. Ogni volta che torno mi sento a casa» (Fiamma Arditi).