Varie, 8 settembre 2003
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Munro Alice
• Wingham (Canada) 10 luglio 1931. Scrittrice • «In Italia, forse appena trenta persone conoscono che Alice Munro è nata in Canada e ha scritto dieci raccolte di racconti e un romanzo. Invece milioni di americani, inglesi, francesi, italiani, tedeschi leggono delirando i romanzi sovente pessimi, talora mediocri, rarissimamente buoni di Philip Roth. Ma spero che, a poco a poco, quelle trenta persone si moltiplicheranno, perché i buoni lettori sono come la zizzania dei Vangeli. E, fra pochi anni, chiunque vorrà parlare di un bellissimo racconto, o di una sottile accortezza narrativa, o di una visione del mondo tanto ricca quanto inafferrabile, dirà: ”Mi ricorda un libro di Alice Munro. Lo leggerò subito”. Ho parlato di racconto. E mi accorgo di sbagliare. Perché non esiste il racconto secondo la Munro, ma ne esistono molte forme e incarnazioni, anche in queste due ultime raccolte, pubblicate nel 1998 e nel 2001. Ogni volta che iniziamo una di queste storie penetriamo in un nuovo cosmo narrativo, che obbedisce a proprie leggi e preferenze, e ogni volta ci sentiamo spaesati, stupiti, talora sconvolti. Non capiamo, e solo lentamente ci abitueremo alle omissioni, alle sorprese, alle deviazioni, ai balzi di tempo, ai bianchi profondi come abissi che ne costellano la superficie. Forse la Munro preferisce il racconto lungo. [...] Quando appare un personaggio, crediamo che sia quello principale, poi se ne affaccia un altro, che ne prende il posto, e poi ancora un altro e ancora un altro: mentre il primo personaggio si sposta, cambia idee e natura, e ci sembra di non riconoscerlo più. Non ascoltiamo la Munro, la quale sostiene di ”non costruire storie”, ma ”di acciuffare con la mano qualcosa nell’aria”, seguendo una intuizione misteriosa. [...] Da Henry James, il padre di tutti coloro che, nei tempi moderni, raccontano storie, Alice Munro ha imparato che la prima qualità di un racconto è l’enigma: ogni storia è un mistero, che la collaborazione dell’autore e del lettore portano lentamente alla luce. Appena entriamo in un racconto, c’è un piccolo enigma, e poi un altro piccolo enigma, e poi un terzo e un quarto. Ecco una prima sorpresa: la signora, che ha appena comprato un elegante vestito nuovo, è in realtà una domestica: poi c’è un’enorme omissione o un radicale capovolgimento o una travolgente scoperta. [...] L’inatteso si nasconde in ogni riga; oppure si scatena la più romanzesca e melodrammatica inverosimiglianza. Alla fine, il vero modello sembra essere il grande genio, tenero e tenebroso, che ha ispirato la letteratura americana: Nathaniel Hawthorne. Se possiamo dare un consiglio ai lettori, è quello di leggere con grandissima attenzione, perché perdere un solo particolare, o un’allusione temporale o il colore di un vestito o di una nuvola o un sorriso, lo porterebbe irrimediabilmente fuori strada. Ma il lettore non abbia timore: la Munro non è una scrittrice per pochi: parla a tutti, e racconta le storie di tutti, le storie che accadono al contadino, alla domestica, all’infermiera e al bambino di tre anni, e quindi ad ognuno di noi che leggiamo e fantastichiamo. Di rado, in questi racconti, appaiono storie di scrittori. Se i personaggi scrivono, sono ragazze: forse diventeranno grandi come Virginia Woolf o Karen Blixen; ma intanto raccontare, per loro, è come intrecciare i fili di un pullover o rammendare un lenzuolo o preparare una frittata di zucchine. Qui appare, come si diceva una volta, la vita quotidiana. Possiamo essere certi che, a Vancouver o nelle piccole città dell’Ontario, quarant’anni fa, o ieri, accadeva esattamente così. Questi erano i riti dei funerali: le battute pronunciate durante i matrimoni: queste le tartine alla crema o all’uvetta: questo il vestito pré-maman; queste le pieghe che si formavano nei vestiti di lino, o i minuscoli fiori rosa, giallo o azzurro, ricamati negli angoli dei tovaglioli. Di solito, abitiamo in una famiglia; e partecipiamo a quell’intreccio di voci, oggetti, cose taciute, tensioni nascoste, odi profondissimi, portati in cuore per tutta una vita, che è una famiglia. In un secolo, la famiglia si è trasformata. Eppure essa è ancora, come quando Tolstoj scriveva Anna Karenina, il simbolo più evidente di quell’inestricabile intreccio che è l’arte del racconto e del romanzo. Dove c’è una famiglia, ci sono mobili, letti, lampadari, tappeti, poltrone, sofà, cucine, librerie: una massa di oggetti riempie le case europee ed americane. La Munro possiede un vero genio per gli oggetti e gli interni famigliari: genio che sembra discendere dal più grande pittore di interni che sia mai esistito, Balzac, sebbene le nostre case siano tanto più vuote di quelle del 1830 o del 1840. La Munro conosce il peso, il colore, la massa, il volume, il rilievo di ogni mobile, e il rapporto che intrattiene con ogni persona della famiglia. Sebbene molti sostengano che il mondo di oggi sia astratto e disincarnato, lei continua, imperterrita, a raccogliere letti, vestiti e tartine nelle sue storie fantastiche. La Munro ha due passioni: quella per le deviazioni narrative e quella per i bianchi. Molto spesso, quando racconta un fatto, non narra quel fatto e i sentimenti e le sensazioni che esso suscita: ma qualcosa di apparentemente laterale: invece di analizzare le sensazioni di una donna che sta per morire di cancro, descrive una bottega di calzolaio o un cane che si aggira in un cortile; suscitando in noi un’impressione di casualità e di gratuità, che ci sembra assolutamente necessaria. O, all’improvviso, apre uno spazio bianco in un racconto. In quel bianco trascorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato: il tempo passa senza che nessuno se ne accorga; e noi avvertiamo, al tempo stesso, il senso della continuità e quello della lacerazione che formano il tessuto diseguale della nostra vita. Vi sono grandi scrittori, come Dostoevskij, che prima di cominciare a scrivere sono posseduti da grandiose idee sul mondo, sebbene poi la loro immaginazione, che si prende gioco di qualsiasi idea, si impossessi delle idee e le trasformi fino ad architettare quel labirinto quasi incomprensibile di relazioni che è un vero romanzo. La mente della Munro è pura: nessuna idea preconcetta macchia o adombra la sua obbiettività straordinaria, che forse qualcuno potrebbe paragonare a quella di Dio o della morte. Quando la leggiamo, tutto ci sembra incantevole: ma lo sfondo, vasto e intermittente, che si avverte in ogni riga, è pieno di minacce - morti sinistre, destini incomprensibili, dolori che nessuno potrebbe sopportare, disastri, irruzioni di qualcosa che assomiglia all’amore, le tremende ferite che ci infliggono i morti; o, al contrario, beffe crudeli che realizzano i piani di colei che, forse, porta il nome di Provvidenza. Non sappiamo cosa la Munro pensi della vita: suppongo che accetti religiosamente tutto ciò che accade, e nutra una «ferrea devozione» verso quello che vede; eppure cerchi, con calma, lentamente e segretamente, di mettere ordine nell’esistenza. Sebbene da nessuna parte si intraveda una luce, l’arte è ancora, per lei, un timido tentativo di mettere ordine nelle cose scritte e, dunque, anche in quelle che sono accadute, accadono ed accadranno nel mondo. [...] Come quella di Flannery O’Connor, morta quasi quarant’anni fa, l’immaginazione di Alice Munro affonda nel passato contadino del Canada e degli Stati Uniti. La sua vera patria sono gli anni tra il 1935 e il 1950, quando la cosiddetta civiltà di massa non aveva (apparentemente) uniformato il mondo. Era il tempo dei grandi pranzi famigliari, quando i convitati, seduti attorno a un lungo tavolo, tagliavano, sorbivano, ingoiavano, digerivano, ”illuminati dal candore abbacinante della tovaglia bianca, mentre la luce violenta entrava a fiotti dai vetri appena puliti”. La conversazione riguardava esclusivamente cose pratiche: chi aveva un tumore, chi un’infezione alla gola, chi una brutta orticaria. Nessuno leggeva, o fingeva di pensare. La mattina i mariti uscivano di casa con il collo straziato dal nodo della cravatta, e ricomparivano la sera, pronti a disperdere occhiate di arrogante sufficienza sul timido mondo femminile, immerso in una perpetua adolescenza. Allora la natura era inesplorata, sontuosa e ricchissima: alberi stracarichi di foglie, arbusti soffocati dalla vite vergine o dall’edera della Virginia, distese di grano, orzo e granturco, erba da pascolo: tutte le piante e le pietre sembravano creazioni antropomorfe, dove si aggiravano ragazzi liberissimi e avventurosi - gli ultimi eredi di Huckleberry Finn. [...] Come ogni vera scrittrice, la Munro sente l’obbligo e il piacere di guardarsi attorno, di seguire le minime mode, di ascoltare il linguaggio dei ragazzi e delle ragazze, di entrare in un negozio, presentendo cosa sta per accadere nelle città e nei villaggi del Canada. In questi racconti, il presente è lievissimo: è nato stamani e domani non ci sarà più: è pieno di incanto e di grazia, come tutto ciò che è effimero; ma ha perduto il volume e lo spessore che distingueva il passato. Non ha radici: forse non ha futuro. Qualche volta è insopportabile: come quando la Munro cerca di rappresentare un party di intellettuali. un argomento che Orazio e Boileau, se fossero vivi, avrebbero proscritto dai temi concessi ad un narratore. [...]» (Pietro Citati, ”la Repubblica” 8/9/2003).