Varie, 24 agosto 2003
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DE SIMONE Roberto Napoli 25 agosto 1933. Compositore. Regista. Dopo aver studiato piano e composizione, si è dedicato come etnomusicologo alla ricerca sulle tradizioni popolari del meridione
DE SIMONE Roberto Napoli 25 agosto 1933. Compositore. Regista. Dopo aver studiato piano e composizione, si è dedicato come etnomusicologo alla ricerca sulle tradizioni popolari del meridione. stato direttore artistico del Teatro S. Carlo e direttore del Conservatorio di Napoli. Cavaliere delle Arti della Repubblica Francese, dal ”98 è Accademico di Santa Cecilia. Tra i suoi saggi: Carnevale si chiamava Vincenzo, Il presepe popolare napoletano, La tarantella napoletana e la cura di Fiabe campane per i Millenni Einaudi. «Uno dei più celebri, veri e completi musicisti italiani. Ma confinare quest’uomo nell’ambito della musica sarebbe un errore. Egli è compositore, regista, revisore o arrangiatore di musica antica e no; è esoterista; è studioso fra i primi delle tradizioni popolari; talché chiamarlo antropologo è il minimo che gli si debba; le tradizioni popolari sono, a loro volta, il più potente fomite della sua ispirazione artistica; infine è scrittore d’alta sfera e polemista. Diciamo allora che De Simone è figura delle più note e rilevanti della cultura italiana, per quanto dissentire si possa da lui rispetto a ogni sua singola realizzazione. stato un’ ”icona”, come oggi si dice, della cultura ufficiale, della cultura di regime. Per molti anni se n’è spregiudicatamente giovato. [...] è nato scugnizzo e scugnizzo morirà [...] Essere scugnizzo vuol dire che, per quanto uno più furbo e potente di lui sia convinto di poterlo usare per i propri fini, all’ultimo momento sempre lo scugnizzo gli si sfilerà di mano come un’anguilla. Lo scugnizzo può essere solo anarchico. Dopo i brillantissimi diplomi al Conservatorio di san Pietro a Majella, al giovane Roberto toccarono anni duri di ostracismo da parte del piccino establishment napoletano. A prescindere dai suoi atteggiamenti anticonformisti, credo spaventasse la sua inclassificabilità umana e politica: arcaico o post- moderno, di destra o di sinistra? Così per anni campò la vita facendo musica leggera, persino suonando nelle pizzerie. Secondo me, da un punto di vista sociale e antropologico egli è una specie di monstrum agli occhi della società costituita. I costruttori a uso proprio della statua ufficiale antifascista lo trattano quasi fosse un moderno intellettuale. Ma lui e la sua famiglia sono depositari affatto sinceri d’una civiltà arcaica e vorrei dire a tratti preistorica e di tutti i di lei adattamenti superficiali ai successivi ordinamenti storici ed economici. Il De Simone giovane, non ancor eruditissimo, conosceva per sapienza innata o per insegnamento famigliare e muliebre tradizioni antichissime e dimenticate. Non a caso, a onta d’una sua devozione napoletana e cattolica, non cristiana, per la Madonna e i Santi, egli è un sincretista religioso perché troppo gli costa scegliere, sacrificare al dogma una figura, un simbolo, ai quali sente di appartenere. La profondità del suo vibrare per un mondo magico- religioso più terragno e ctonio che elisio esclude ch’egli sia, come oggi è di moda, un esteta della religione. Intanto, fra perplessità e ironia di molti, De Simone incominciò, ma da musicista laureato, a interessarsi di musica folclorica raccogliendo, credo, in modo né sistematico né scientifico, ché non era il suo obbiettivo, un gran patrimonio di canzoni e canti para- liturgici campani e meridionali, affiancando ciò allo studio di quelle forme tardo- rinascimentali e proto- barocche che, per esser prodotto di musica colta e stampata, non meno sono apparentate alle pratiche dell’improvvisazione polifonica popolare. Nacque così all’inizio degli anni Settanta la Nuova compagnia di canto popolare, strumento dal Maestro coniato per interpretare e far conoscere quanto aveva scoperto e artisticamente elaborato. Il nome del complesso appare serioso e polveroso: in realtà il gruppo fu una vera rivoluzione anche sotto il profilo sociale del teatro. Ragazzi belli e, per lo più, brutti, nemmeno tanto puliti e, forse, intonati, si presentavano in scena quasi si divertissero. Davan voce a canti antichissimi e più moderni, tutti elaborati in modo che non potesse sospettarsi traccia di archeologia ”musicologica”. Invocazioni al sole che apparisse, invocazioni di fecondità alla Terra delle oscure plebi rurali europee, canti di corporazione di puttane e lavandaie. Basta aver letto Catullo e Apuleio, conoscer qualcosa sui Misteri Eleusini, per sapere che, come in ogni rito arcaico, il terribile e l’osceno- arcaico si mescolano; e un rilievo fin allora sconosciuto, perché qui basantesi sull’antropologia religiosa, ebbero i convergenti temi dell’omosessualità, dell’androginia, della castrazione, del travestimento. Realtà rimaste fino a pochissimi anni fa misteriosamente quotidiane per Napoli e Palermo, forse per il mondo, ma di rado manifestate con tanta naturalezza fuor degli appositi ghetti. Ancora nella versione registrata su video della Gatta cenerentola nella seconda stesura la scena delle cucitrici, tutti uomini travestiti, è preziosissimo documento della cadenza, dotata addirittura di aspetti di metrica quantitativa e di ”portamenti” nel parlato, che da sola valeva a socialmente qualificarli. Perdutasi oggi per la fine del dialetto e l’influenza della televisione, ma da chi scrive ben percepita quando, tra i quindici e i vent’anni, faceva ”filone a scuola” e se ne andava in Galleria Umberto. Vi si raccoglievano ancora vecchie glorie anteguerra come ”a Miraddois, Vicienza ”a scopa, Vicienza ”a stuorta, ”a Pullera, ”a Mellunara, ”a Trocola, insieme con prodotti freschi come Tonino ”a svedese, Rosa sangue, Friariello... Ripeto, più che di gergo era un fatto d’intonazione: ogni sillaba conteneva una sottolineatura enfatica portatrice d’ironia verso la donna, ognuno di loro essendo una donna al quadrato, e autoironia. Non si risparmiavano reciproche, ingegnose e perfide agudezas. Intanto erano dal popolo, ancor esistente, ritenuti portatori di abbondanza e buon augurio: non v’era matrimonio al quale più d’un femmenella non fosse ricevuto e vezzeggiato per intrattenere gli ospiti. Tutto questo si trasfigura in opera d’arte nella Gatta cenerentola [...]» (Paolo Isotta, ”Corriere della Sera” 24/8/2003).