Varie, 12 agosto 2003
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DEAVER Jeffery Chicago (Stati Uniti) 6 maggio 1950. Scrittore • «’La gente non comincia un libro per arrivare a metà, ma per arrivare alla fine”
DEAVER Jeffery Chicago (Stati Uniti) 6 maggio 1950. Scrittore • «’La gente non comincia un libro per arrivare a metà, ma per arrivare alla fine”. di Mickey Spillane l’unico comandamento che l’ex avvocato che ha scelto la scrittura, segue quando scrive i suoi libri. Ed effettivamente è difficile per un appassionato del genere giallo non arrivare alla fine dei suoi romanzi, macchine narrative perfette, scritte con grande cura dei particolari e sempre in grado di riservare un colpo di scena. […] L’abitudine alla scrittura, d’altronde, risale all’adolescenza: ”Ho cominciato verso i dieci anni. Non ero un bambino molto atletico, non mi dedicavo allo sport e avevo pochi amici. Mi piaceva leggere e andare al cinema. Poi, per sopravvivere ho fatto molte cose, fino all’avvocato nel settore commerciale, ma ho sempre saputo che la mia vera passione era scrivere. Così, appena ho potuto mi sono dedicato a quello. L’esperienza in campo legale non mi ha offerto spunti per le storie da raccontare, ma mi è servita come metodo, mi ha insegnato a fare le ricerche, a organizzare il materiale”.Che è poi il segreto del suo successo, quello che ha fatto sì che Il collezionista di ossa diventasse un film di successo. […] Apprezza altri scrittori di thriller come Le Carrè, Rankin, Connelly, Harris, ma il tempo per leggere è davvero poco. ”Mi piace cucinare, bere vino, ricevere gli amici. Mi piace organizzare feste a tema. Quello dell’ultima era l’impero romano. Ho trovato un libro di ricette degli antichi romani e le ho messe in pratica. A parte il pesce e il pollo arrosto che erano buonissimi, il resto faceva schifo. Ma ci siamo divertiti un sacco”» (Cristina Taglietti, ”Corriere della Sera” 18/6/2002). «L’eroe dei suoi thriller, Lincoln Rhyme, è un detective tetraplegico che supplisce all’handicap fisico con l’esperienza e il cervello. Le sue storie più fortunate, dal Collezionista di ossa al recentissimo La scimmia di pietra, sono ambientate a New York, dove killer spietati seminano il terrore e la morte. E i suoi lettori, ovunque nel mondo, si riconoscono dalle occhiaie: è difficile interrompere un libro di Jeffery Deaver e magari mettersi a dormire senza avvertire l’esigenza di arrivare, in un crescendo di brividi e colpi di scena, fino all’ultima pagina. A costo di fare l’alba. ”Nei confronti dei lettori ho una grande responsabilità: devo soddisfarli e inondarli di emozioni. Senza mai scadere nella sgradevolezza. la prima regola che mi sono dato. Nei miei libri il Bene e il Male si fanno la guerra, si uccide a ripetizione ma la violenza non è compiaciuta. Niente grandguignol. E i bambini non vengono mai toccati...”.[…] Sforna un best seller all’anno traendo l’ispirazione dopo essere rimasto per ore seduto in una stanza buia, con gli occhi chiusi (’per vedere nella mia immaginazione le singole scene della storia”)» (Gloria Satta, ”Il Messaggero” 18/6/2002). «Quello che mi interessa è la suspense. Nei miei thriller c’è sempre il bad guy, il cattivo, ci sono i morti, ma la violenza non è mai l’elemento principale. Come succede a Janet Leigh nella scena della doccia di Psycho, non mi interessa mostrare l’atto dell’assassinio. Mi intriga piuttosto costruire un meccanismo psicologicamente insostenibile. Un detective quadriplegico non potrà mai prevalere con le armi della forza, ma piuttosto con quelle dell’analisi, dell’intelligenza. Sembra sempre sul punto di soccombere, poi ce la fa. La sua apparente debolezza aiuta la suspense [...] I miei libri sono come una sinfonia. C’è un tema principale, la storia principale, e poi una serie di sottotemi, fatti minori che si intrecciano. Sono anche molto attento al ritmo: dopo ogni andante c’è un adagio: dopo un colpo di scena, c’è un momento di allentamento della suspense. quello che so fare meglio: costruire storie. Non sono uno scrittore politico, non ho particolari doti di scrittura o una visione esistenziale particolarmente profonda. Ma so quello che i miei lettori vogliono, e quello che piace a me: storie tese, incalzanti, che si svolgono nell’arco di 48-72 ore [...] Sì, il grigio mi manca, perché il grigio, l’ambiguità, è il colore della vita. Ma sono uno scrittore di genere, e il mio è un genere ”in bianco e nero": ci sono i buoni, Lincoln Rhyme, Amelia Sachs, ci sono i cattivi, il mago-killer. Il bianco e nero serve a intrattenere, e io sono uno scrittore di intrattenimento. Ma c’è qualcosa di dannatamente bello nel far dimenticare alla gente le sue preoccupazioni, nel farla perdere in una storia. un mestiere, so di farlo al meglio» (Roberto Festa, ”la Repubblica” 18/5/2003).