varie, 18 febbraio 2003
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Diba Farah
• Teheran (Iran) 14 ottobre 1938. Ex imperatrice di Persia (al fianco dello scià Reza Pahlavi) • «Colei che per lungo tempo fece parlare le cronache mondiali per la giovinezza, la bellezza, la buona poi la cattiva sorte […] una figura da indossatrice, sempre di un’eleganza severa […] Il viso di un’avvenenza che le foto non sanno rendere. […] Quella che fu giovane studentessa di architettura a Parigi e che, come in una favola, sposò lo Scià. Da imperatrice si occupò a fondo dei problemi delle donne nel suo Paese e dei musei da creare, acquistando lei stessa numerose e splendide opere d’arte moderna, amica di artisti che talora invitava a corte perché la consigliassero: Andy Warhol, Henry Moore, Arnaldo Pomodoro» (“La Stampa” 17/2/2003) • «“Quando ripenso a quel mattino del gennaio 1979 il dolore mi stritola il cuore, intenso, intatto. Un silenzio angoscioso era sceso su Teheran, come se la nostra capitale, a ferro e a fuoco da mesi, trattenesse all´improvviso il respiro”. Farah Diba racconta la fuga dall´Iran, snocciola i ricordi di una vita cominciata come un racconto di fiabe e proseguita attraverso i drammi e le tragedie di una famiglia e di un paese. [...] Il racconto della fuga è certamente il più drammatico. Farah Diba dice che la decisione di partire era stata presa dieci giorni prima. Lo Scià, già minato dalla malattia che lo avrebbe ucciso diciotto mesi più tardi, era affaticato, dimagrito. La fine del regime era vicina: “Nelle ultime settimane, malgrado la legge marziale, ogni notte i manifestanti riuscivano a salire sui tetti, sfidando i militari, e le loro grida di odio arrivavano fino a Palazzo. ‘Allah è il più grande, morte allo Scià’. Avrei voluto proteggere il re dagli insulti”. I consiglieri erano divisi: alcuni caldeggiavano una soluzione politica della crisi, altri chiedevano allo Scià di autorizzare l´esercito a sparare sulla folla. Reza Pahlevi rispondeva “che un sovrano non può salvare il suo trono con il sangue dei suoi connazionali. Un dittatore sì, non un sovrano”. Così, la mattina del 16 gennaio 1979, lo Scià e la moglie salgono sul Boeing 707 che li porta in esilio: “Arrivato alla passerella, il re si girò e il piccolo gruppo che ci scortava restò immobile. Di questo faccia a faccia conservo la memoria di un´emozione insostenibile”. Farah Diba racconta l´arrivo in Egitto, l´amicizia, mai smentita, di Sadat, la fuga da un paese all´altro, inseguiti dalla condanna a morte pronunciata dagli ayatollah. Ma ricorda anche come nasce l´amore con Reza Pahlevi. Si erano conosciuti all´ambasciata iraniana a Parigi, nel 1959. Poi arrivarono gli inviti a Palazzo e una sera, dopo averle parlato delle due prime mogli, Fawzia d´Egitto e Soraya, “tacque, mi prese la mano e mi guardò negli occhi: ‘Accetti di diventare mia moglie? – Sì’. Risposi di sì perché non c´era da riflettere, perché non avevo riserve. Era sì, lo amavo, ero pronta a seguirlo”. Poi lo Scià aggiunse: “Regina, avrai molte responsabilità nei confronti del popolo iraniano”. L´ex imperatrice racconta di non aver mai percepito l´integralismo dei mullah (“non ho mai sentito i religiosi esprimersi contro l´emancipazione della donna”)» (Giampiero Martinotti, “la Repubblica” 12/10/2003). «Ogni volta appare più bella, affascinante, snella, elegante. Si può immaginare come fosse seducente nel 1959, a 21 anni, allorché venne scelta dallo Scià di Persia come terza, amatissima moglie. Prima del fidanzamento andò a Parigi per prepararsi a diventare imperatrice: folle festanti attendevano lei, sconosciuta studentessa d’architettura a Parigi, di buona famiglia iraniana; l’aereo arrivò in Francia, lei fu condotta dalle sorelle Carita per cambiare pettinatura, da Guerlain e dal giovane Yves Saint-Laurent, che lavorava per la Maison Dior, per il corredo. Dalla favola alla realtà d’una vita di corte complicata da intrighi, accanto al marito che adorava e a quattro figli, mentre imparava il “mestiere di regina”, occupandosi di problemi colossali del suo popolo, salute, educazione, cultura, emancipazione femminile, viaggiò per il mondo ricevuta dai personaggi più in vista del tempo, capi di Stato e sovrani, acclamata e raffrontata a Jackie Kennedy per il Medio Oriente, corteggiata con lo Scià per l’immensa ricchezza del petrolio, con le lotte conseguenti. Poi il dramma, la fuga dall’Iran, l’esilio, il rifiuto dei conoscenti e amici di riceverli (con rare eccezioni), la malattia e la morte del marito, le difficoltà nel crescere i figli in esilio temendo attentati, la recente perdita della figlia Leila. Tutto ciò è per la prima volta raccontato nel volume Mémoires, da poco pubblicato in Francia da XO Editions che reca la firma Farah Pahlavi, il cognome dello Scià. [...]. Dal libro sembra che lei voglia rammentare che l’integralismo più violento fino a oggi è scaturito dall’arrivo al potere dell’Ayatollah Khomeini. Vuol dire che nessuno se ne è accorto per oltre 20 anni e adesso gli attentati toccano Paesi diversi? “L’Islam esiste da 14 secoli. I paesi musulmani sono vissuti più o meno in pace fra loro e con gli altri sino all’alba del 1900 (quando comparvero i fratelli Musulmani prima in Egitto n.d.r.). Da noi c’erano fermenti ispirati al fanatismo, tre nostri ministri furono uccisi dai fondamentalisti, mio marito si salvò da gravi attentati. Quei religiosi si erano uniti all’estrema sinistra. Io ritengo che dopo Khomeini il fondamentalismo abbia avuto uno sviluppo impressionante e il mondo ha chiuso gli occhi. Dopo la partenza dello Scià sono accadute molte cose: L’Urss ha invaso l’Afghanistan, sono arrivati i Mujahidin, i Talebani, la guerra Iran-Iraq, quella del Golfo, i recenti conflitti. Quelle regioni del mondo non conoscono pace né stabilità. Mio marito pensava che fosse interesse dell’Iran allearsi con gli occidentali, ma conservare buoni rapporti con quasi tutti i Paesi dell’Est e del Terzo Mondo. Si manteneva un equilibrio per la stabilità. L’Iran è sempre stato importante dal punto di vista goegrafico-strategico. Sono convinta che la libertà e la sicurezza in Iran siano determinanti per quelle regioni e per il resto del mondo”. Come si presentò Khomeini? Lei scrive che, approvata la vostra “Rivoluzione bianca”, un religioso sconosciuto, Ruhollah Khomeini, con deferenza scrisse al re per protestare contro il diritto di voto alle donne. Cominciarono le proteste dei Mullah fino all’arresto di Khomeini, poi l’esilio in Iraq, dove anni dopo affermò che il suo movimento “aveva bisogno del sangue dei martiri”. Infine calò dal cielo in aereo da Parigi per instaurare la rivoluzione islamica... “Comparve nel ‘63 dopo la ‘Rivoluzione bianca’. Si chiamava così perché da principio non c’erano stati morti. Lo Scià voleva far uscire l’Iran dal sistema feudale, scontentando i grandi proprietari terrieri e i religiosi che possedevano notevoli proprietà e perdevano potere. Erano contro il diritto di voto alle donne, contro la libertà dal chador. I comunisti, contrari alla monarchia, si allearono coi religiosi. Lo Scià la chiamava ‘la maledetta alleanza di rosso e nero’. Era il contesto della guerra fredda, dei movimenti di estrema sinistra. La sola nostra paura era il comunismo, avevamo 1500 chilometri di confine con l’Urss, e in passato i Russi sognavano di arrivare alle acque calde del Mar Persico. Anche i repubblicani si unirono. Tutti, giovani, operai, consideravano Khomeini un santo perché predicava la libertà per tutti, anche per le donne, era contro l’imperialismo occidentale. La stampa straniera scrisse che era il ‘trionfo dello spirito sulla materia’. Il ‘santo’ si presentò con la promessa di dare i soldi del petrolio a tutti: ognuno avrebbe trovato un’auto davanti alla propria casa. Mio marito invece sosteneva che il Paese doveva prima uscire dall’analfabetismo, andare poco a poco verso la democrazia: non si diventa democratici da un giorno all’altro” [...]» (Fiorella Minervino, “La Stampa” 7/12/2003).