Varie, 30 gennaio 2003
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AUG Marc Poitiers (Francia) 2 settembre 1935. Antropologo. Uno dei più noti studiosi del panorama urbano della tarda modernità • «Crea immagini efficaci
AUG Marc Poitiers (Francia) 2 settembre 1935. Antropologo. Uno dei più noti studiosi del panorama urbano della tarda modernità • «Crea immagini efficaci. Una fra le più incisive è quella dei ”non luoghi”, che ha dato il titolo a un suo libro apparso in italiano da Elèuthera (la stessa casa editrice che pubblicò anni fa anche Un etnologo nel metrò) e che fissa con buona evidenza quegli spazi anonimi, alienati eppure confortevoli, nei quali ci troviamo sempre più spesso a trascinare la nostra solitaria post-modernità. Ambienti areoportuali, catene alberghiere, faraonici ipermercati: luoghi del genere, insomma, che sembrano non poter esistere senza di noi, e allo stesso tempo ci azzerano ogni volta che ne varchiamo le soglie, fino a trasformarci in semplici numeri. Quelli della nostra carta di credito. A ben guardare, questa passione per simili teatri della contemporaneità è perfettamente comprensibile: per uno come lui, infatti, che insegna all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e che è partito con le sue ricerche dalle popolazioni ”primitive” dell’Africa, questi non luoghi, nella loro diffusione planetaria e nella sbalorditiva invarianza, rappresentano uno dei più forti connotati tribali del villaggio globale. […] Ha affermato che ”tra i modi migliori per resistere allo spaesamento in una terra lontana vi è sicuramente quello di rifugiarsi nel primo supermercato che si incontra”. […] ”Sono convinto che si possa anche creare una sorta di poesia dei non luoghi, poiché da essi viene la sensazione che qualcosa stia sempre per accadere. C’è, nei non luoghi, quasi una religione dell’attesa. Come nel vestibolo della tragedia classica, dove tutti si incontrano ma nessuno esiste se non nel pensiero dell’altro. Troppo vuoti o troppo pieni, sono spazi determinati dalla loro funzione: e quest’escursione dal vuoto al pieno la si può controllare facilmente, trascorrendo una notte in aeroporto o presentandosi all’apertura di un supermercato. Sono paesaggi minimali che ricordano quelli dei romanzi cavallereschi del Medioevo. Inoltre, in quest’attesa che qualcosa accada sopravvivono frammenti di un esotismo ormai perduto, poiché l’attesa è aperta al nuovo, all’imprevisto, all’altrove. Ecco, nella capacità di accendere illusioni è il senso poetico dei non luoghi […] Oggi, ciò che accade è sempre evidente, e sempre presente: perciò è niente, poiché non c’è più niente da scoprire. Ci sfugge il sentimento del tempo. E, insieme a esso, quello del dubbio. La pressione di tv e pubblicità fa sì che il mondo ci appaia ovvio. La curiosità va perduta, e con essa, parte della nostra identità. Già: scompare l’altro da me come problema, dunque scompaio anch’io, poiché la mia esistenza è comunque il risultato di una negoziazione con l’altro. In questi spazi che non ci trasmettono l’esistenza dell’altro finiamo per sbandare anche nella definizione di noi stessi. Che dire? una solitudine assoluta, che non passa neppure per la consapevolezza di sé. Un individualismo passivo, che non comporta però alcuna sofferenza”. Centrale, secondo lui, è il ruolo dell’architettura, che elabora i nuovi standard dei non luoghi e li esporta nel mondo, sempre all’insegna dell’assoluta riconoscibilità. ”L’architetto è la vera star dell’epoca, di lui non si è mai parlato così tanto come in questi anni. Il suo intervento è duplice, e apparentemente contraddittorio. Da un lato si pone l’obiettivo di una precisa omogeneizzazione del pianeta, lo studio di una specie di città globale che superi le differenze delle singole realtà. Dall’altro, a lui spetta la possibilità di creare un evento a livello mondiale con gesti progettuali tipo il Guggenheim di Gehry, a Bilbao, o la piramide di Pei, a Parigi. Sembrerebbe una schizofrenia, ma in realtà queste due direzioni dell’architettura sono governate dalla stessa logica, dalla stessa rinuncia a quel sogno di trasformazione del mondo che all’inizio del Novecento mosse il movimento moderno. Il bravo architetto, oggi, si tormenta. convinto di dover fare qualcosa, ma viene risucchiato da questa necessità globale: che prevede tanto il funzionalismo spinto dei non luoghi quanto l’assoluto estetismo, il formalismo di certi eventi planetari”. […] Parla come un entomologo più divertito che spaventato dalle sue intuizioni» (Enrico Regazzoni, ”la Repubblica” 13/4/2002). «[...] Poteri di vita, poteri di morte (Raffaello Cortina, pagg. 180, euro 19,50), un libro di molti anni fa ma tradotto da noi soltanto oggi. Si tratta di un denso saggio che polemizza contro il mito duro a morire del "buon selvaggio", ricordando che una riflessione sul potere s´impone ad ogni latitudine. ”Certo, questo libro è nato da una discussione tipica degli anni Settanta”, ammette lo studioso francese, ”ma temi come cultura, identità, potere e ideologia sono ancora di grandissima attualità, specie in una società come la nostra che oggi si dibatte tra locale e globale. Secondo me, è sempre necessario interrogarsi sul potere e sulle sue forme di repressione più o meno simboliche, che da noi oltretutto sono spesso subdole e mascherate. Nelle società democratiche, il potere, sfruttando l´immagine e la comunicazione, più che alla repressione diretta mira a condizionare le nostre vite. [...] Le logiche del potere trascendono le forme istituzionali, sono le stesse dappertutto. Quando ho scritto il libro molti pensavano - e qualcuno lo pensa ancora oggi - che nelle cosiddette società primitive i rapporti di potere non esistessero. In realtà, il potere si manifesta anche lì, e talvolta con forme repressive molto marcate. Insomma, i paradisi primitivi sono miti che non esistono. Ma in quegli anni la valorizzazione delle differenze era molto forte, tanto e vero che ne paghiamo le conseguenze ancora oggi. [...] L´esasperazione del diritto alla differenza ha prodotto un culturalismo i cui effetti perversi sono oggi percepibili da tutti. In nome del rispetto degli altri a qualsiasi costo, c´è chi giustifica l´ingiustificabile. Nelle altre culture - ad esempio in quella islamica - tolleriamo valori e pratiche che non ammetteremmo mai nella nostra. Questo atteggiamento nasconde una forma di razzismo capovolto, perché nel nome della differenza, accettiamo nell´altro ciò che non tolleriamo in noi, considerandolo di fatto a un livello inferiore al nostro. Questa vittoria del politically correct finisce pure per intimidire il pensiero democratico. In realtà, si può essere benissimo tolleranti e contemporaneamente molto fermi sui principi. La tolleranza non deve mai tollerare l´intollerabile, come ad esempio la disuguaglianza dei sessi o la repressione della libertà religiosa. [...] Personalmente non credo alla fine delle ideologie. Proprio quando si crede che queste non esistano più, esse sono in realtà ancora più efficaci. Su questo terreno, Althusser aveva ragione quando sosteneva che coloro che sono le prime vittime di un´ideologia sono spesso coloro che la difendono. Infatti, una delle caratteristiche proprie dell´illusione ideologica è di persuadere coloro che ne sono le vittime. Oggi purtroppo l´attualità ci mostra molti drammatici esempi di tale funzionamento ideologico. [...] L´ideologia del consumismo, come pure l´ideologia della fine della storia. Quest´ultima è un mito che rappresenta bene la posizione della nazione che domina lo scacchiere mondiale. Gli Usa, infatti, difendono un sistema che combina democrazia rappresentativa, liberalismo economico e leggi del mercato, presentandolo come un orizzonte definitivo e insuperabile. Nulla potrà più rimetterlo in discussione. Da questa mancanza di prospettive deriva anche quell´ideologia del presente che mi sembra il dato più caratteristico dei nostri tempi. Noi tutti viviamo sotto la dittatura del presente immediato: dimentichiamo il passato e non ci proiettiamo nel futuro”» (Fabio Gambaro, ”la Repubblica” 23/10/2003).