varie, 15 gennaio 2003
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MENICHELLI Giampaol Roma 29 giugno 1938. Ex calciatore, campione d’Italia con la Juventus nel 1966/67, con la Roma ha vinto la coppa delle Fiere 1960/61
MENICHELLI Giampaol Roma 29 giugno 1938. Ex calciatore, campione d’Italia con la Juventus nel 1966/67, con la Roma ha vinto la coppa delle Fiere 1960/61. In nazionale, 9 presenze e un gol. «Ala sinistra. Scatto, velocità, dribbling, queste le sue qualità. [...] ”Iniziai nei ragazzi della Roma, poi passai nella De Martino e in quello che veniva definito il ’Campionato Riserve’. Le fonti di ispirazione certamente non mancavano se vicino a me vedevo giocare calciatori come Schiaffino, Lojacono, Angelillo, Ghiggia [...] Fu Giorgio Sarosi a permettermi di respirare il clima della prima squadra. Più che un allenatore, Sarosi era per me un educatore. Il mio debutto in serie A, comunque, avvenne nel ’58 con il duo Busini-Nordahl [...] Nasco ala. Ai miei tempi l’ala aveva un compito importantissimo perché retrocedeva fin sulla linea dei terzini per conquistare il pallone, quindi doveva ripartire, fuggire fino alla linea di fondo e crossare per il centravanti. In fondo era quello che facevamo io sulla fascia sinistra e Orlando su quella destra per Pedro Manfredini. L’ala era dunque una vera fonte di gioco e il suo lavoro richiedeva fiato, forza, resistenza e anche, naturalmente, qualità tecniche [...] Tornato a Roma dopo il Mondiale del ’62 in Cile, mi accorsi subito di una certa diffidenza nei miei confronti. Sapevo che c’erano dei contatti in corso con la Juventus e così, quando la trattativa maturò, accettai subito la nuova destinazione [...] Si trattava veramente di un altro mondo. Legai subito con tutti e non mi pesò affatto l’aver cambiato città. Nella Juventus non contavano soltanto i nomi ma la prestazione di ogni calciatore doveva concorrere a fare grande la squadra. Ci si doveva integrare perché la Juventus era la cosa più importante e il calciatore che non riusciva ad adeguarsi a questo pensiero, che non ’pensava da grande’, veniva ceduto perché, evidentemente, non era ’da Juve’. A Torino l’impegno profuso veniva ripagato, a Roma invece poteva non bastare. Il calciatore che nasceva a Roma aveva mille difficoltà e, per imporsi, un romano doveva sempre esibirsi in prestazioni straordinarie [...] Il mio primo allenatore nella Juventus fu un brasiliano, Amaral. Giocavamo con un 4-4-2 e l’impostazione era chiaramente ’a zona’. Con Sacco o Dell’Omodarme a destra, ripetevo ciò che con Orlando avevo fatto nella Roma, cioè fughe sulla fascia e quindi il cross per il centravanti che in quel primo anno era Nenè. L’anno successivo arrivò Heriberto Herrera. Si trattò di un passaggio fondamentale perché con il tecnico paraguaiano s’incominciò a considerare in Italia anche il valore dello ’schema’. Con il ’movimiento’ di Heriberto Herrera veniva penalizzato il talento e questo per me non era un fatto positivo. Il mister tentò di imporre lo schema anche ai calciatori di grande qualità e questo fu il suo limite perché, ad esempio, un fenomeno come Sivori, che per me è pari a Maradona, non poteva venir mortificato imponendogli certi ’spostamenti’ precisi, cioè quanto quello ’schema’ richiedeva. Nel ’67, sempre con Heriberto Herrera, vincemmo il campionato proprio all’ultima giornata e la mia gioia fu ancora più grande perché in quel campionato risultai il capocannoniere della Juventus con undici reti [...] Io ho giocato accanto a Sivori e posso testimoniare la sua grandezza. Secondo me in alto, molto in alto e distaccato da tutti gli altri, c’è Pelè, poi, accanto a Maradona io colloco Sivori. A quel tempo la televisione non aveva la forza comunicatrice che possiede oggi e così i fenomeni erano appena intravisti, soltanto sfiorati dall’obiettivo; Maradona è stato visto invece da tutti gli occhi del mondo e così la sua grandezza è diventata conoscenza planetaria. Se anche Sivori, ai suoi tempi, avesse potuto disporre di filmati con riprese sempre più precise e dettagliate, tutti ne avrebbero parlato come un fenomeno, al pari di Maradona. Pochi hanno visto cosa era capace di fare Sivori...[...] L’esperienza cilena ai Mondiali del ’62. Era una Nazionale a mio avviso fortissima anche se non organizzata. Una Nazionale che annoverava calciatori come Rivera, Mora, Maldini, Sormani, Sivori, Bulgarelli, Trapattoni. Fummo penalizzati da alcuni articoli scritti da nostri corrispondenti. Tutta la nazione cilena si sentì offesa e noi pagammo quel clima di ostilità che si era creato [...] Velocità, dribbling, senso del sacrificio, acume tattico, queste erano le mie qualità. Ritengo che con allenamenti appropriati, oggi che il calcio è velocissimo, potrei giocare tranquillamente. In fondo, io correvo sulla fascia, andavo a cercare il pallone fin sulla linea dei terzini per poi propormi in avanti; oggi mi pare che gli attaccanti esterni siano dei veri pendolari di fascia, dunque... [...] Ho preso anche il patentino per poter allenare ma poi ho desistito. Per il mio carattere ho sempre ritenuto di non essere adatto per fare l’allenatore, professione per la quale è necessaria una buona dose di cinismo e, in certi momenti, anche l’abilità della ’recita’, cioè dire e non dire. Con il calcio sono stato felice, ho vinto abbastanza, una Coppa delle Fiere con la Roma, uno scudetto e una Coppa Italia con la Juventus; ho giocato e segnato anche in Nazionale. Va bene così. Meglio collocarsi in un altro posto e stare in serenità, come adesso”» (Fernando Acitelli, ”La Gazzetta dello Sport” 31/12/2002).