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 2003  gennaio 09 Giovedì calendario

Cardin Pierre

• (Piero Cardin) Sant’Andrea di Barbarana (Treviso) 2 luglio 1922. Stilista • «’Mi alzo ogni mattina alle sette, alle otto sono al lavoro e poi via, senza sosta fino all’una di notte. Lavoro molto più adesso di quando avevo trent’anni. Anche perché ho più impegni, più attività”. Il signore ha ottant’anni, 19 ristoranti di alta classe (Maxim’s), quattro teatri, due alberghi e un nome che ha attraversato da protagonista più di mezzo secolo di moda. Veneto di nascita, parigino d’adozione, internazionale per vocazione: la sua griffe è presente in 160 Paesi e quando chiedi quanto vale tutto, risponde candidamente: ”Non lo so”. E’ nato a Sant’Andrea di Barbarana, comune di San Biagio di Callalta, provincia di Treviso. Oggi il parroco, don Giuseppe Camerotto, stima 800 abitanti: erano molto meno nel 1922, quando Piero venne al mondo ultimo della numerosa famiglia ”Cardìn”, come da quelle parti si pronuncia ”Cardèn”. Due anni dopo il trasferimento in Francia e poi, ventenne in piena guerra, Piero arriva a Parigi. All’inizio vuole fare il ballerino. Si avvicina al teatro, sua grande passione. Poi scopre la moda. ”Sono stato il primo assunto della maison Dior. Dior doveva ancora aprire bottega e io ero già lì fuori che aspettavo. Era il 1946, mi sembra ieri. Ero nel luogo giusto, nel momento giusto: Parigi, subito dopo la guerra. C’era grande voglia di vivere, di ricominciare, di provare. L’aria era sempre frizzante. Frequentavo gente di teatro. Sono stato molto fortunato”. Si impone, ancora adesso, giornate lunghissime, piene di impegni: ”Ho anche una fabbrica di mobili, che mi piace seguire; ma è la moda, la creazione degli abiti, la cosa che faccio con maggior piacere. Il resto è complementare, i ristoranti, gli alberghi, sono occupazioni che mi aiutano a cambiare punto di vista, a vedere le cose sotto un’altra luce. Il segreto forse è proprio quello. Cambiare le cose, mischiare. E poi lavorare tanto: fa bene alla salute e io sono qui a dimostrarlo”. Cinquant’anni di moda. E un’accusa rivelatasi infondata: quella di voler rovinare il giocattolo. ”Erano gli anni Sessanta, il mondo stava cambiando. Io lo percepivo chiaramente, altri invece volevano tenere chiusa la moda in un castello dorato. Ma le pulsioni sociali erano dirompenti. Così decisi di aprire la creatività della mia maison a un numero maggiore di persone e firmai una serie di accordi con catene di grandi magazzini in Gran Bretagna, Francia e Germania. In Italia feci un accordo con la Rinascente. Fu uno choc per molti. I colleghi dicevano: fra tre anni non ci si ricorderà più di Pierre Cardin. Ne sono passati quaranta...”. Un successo da un’intuizione, come talvolta capita: ”Vestivo le grandi attrici, i reali, le donne di stato francesi. Ma volevo essere popolare, aprirmi alla gente, essere creativo per chi tutti i giorni doveva andare a lavorare. Nessuno aveva pensato a questi milioni di persone. L’ho fatto io. A teatro ho lavorato con i più grandi e così nel cinema, da Visconti a Zeffirelli, ma non ho mai confuso i costumi di scena con gli abiti per la vita di tutti i giorni. Sono padrone di me stesso al 100 per cento, non ho mai avuto interesse per una quotazione in Borsa e, soprattutto, non ne ho mai avuto bisogno”. Non frequenta, ma comprende, l’attuale circo della moda. ”Vedo una diffusa tendenza alla spettacolarizzazione. Però è così, i giovani sono così. Lo erano anche sessant’anni fa: lo spettacolo, la messa in scena, è quello che vogliono. Quanto ai nuovi stilisti, vedo che c’è molto nudo nelle loro creazioni. Io le donne le vesto, loro le spogliano. E poi si copiano. Ormai è difficile distinguere uno dall’altro. Quando ho iniziato Schiapparelli, Chanel, Balenciaga avevano uno stile molto personale e di grande fantasia che oggi quasi non trovo più. Gli italiani? Oh, mi piaceva molto Capucci. Ho conosciuto Gianni Versace, era molto bravo. Adesso i più bravi sono Valentino e Armani, che sanno vestire il classico con grande eleganza”. In Veneto torna spesso. Possiede un palazzo a Venezia e ha un fratello, Erminio, di 12 anni più vecchio, che vive a Padova. Poi nipoti e cugini, rimasti al paese. ”Non lo nascondo – dice con leggera inflessione francese – , dentro mi sento ancora un po’ italiano”» (Stefano Righi, ”Corriere della Sera” 8/1/2002).