varie, 16 dicembre 2002
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Amis Martin
• Oxford (Gran Bretagna) 25 agosto 1949. Scrittore. Figlio di un comunista passato poi dalla parte dei conservatori. «Si è fatto un nome tra i critici già con il romanzo d’esordio, The Rachel papers, scritto a 24 anni. […] Lodato dalla critica come un rinnovatore della narrativa, è una vera star del mondo letterario inglese. Di lui Julian Barnes ha detto: ”Ha un misto di precocità, intelligenza e successo sessuale che è destinato a suscitare invidia”. Anche le sue scelte personali scatenano polemiche: la sua ossessione per i denti che lo ha portato a farsi operare negli Stati Uniti, la rivelazione di una figlia illegittima, il divorzio dalla prima moglie e il matrimonio con l’americana Isabel Fonseca» (’L’Espresso” 12/9/2002). «I miei romanzi non sono famosi per il loro contenuto emotivo: qualcuno mi disse che sembrano scritti da un pesce lesso […] In un romanzo le emozioni vanno sempre controllate […] Nei miei libri il valore principale è quello dell’innocenza. Ma quello che mi attira sempre è scrivere sulle esperienze […] Penso che un romanziere debba avere una vena d’innocenza. E per essere un poeta è necessaria una vena d’innocenza ancora più forte […] C’è stato un tempo, da bambino, in cui ero un provinciale di campagna, ma è una definizione che non mi si applica più. Oggi sono irrimediabilmente diventato un uomo sofisticato della grande città, anzi di molte città diverse. La campagna mi fa accapponare la pelle. Specialmente la campagna inglese. […] Scrivo in qualsiasi momento in cui non sto facendo qualcos’altro. Scrivo sempre, benché ami alzarmi tardi. La metà del tempo però la passo a pensare, non a scrivere. Gran parte dello sforzo di scrivere consiste nell’aspettare. Aspettare che un paragrafo sia pronto, come se fosse un piatto che deve cuocere. Non ha senso sputarlo fuori. Meglio aspettare. Gli scrittori raramente rivelano quanto siano aiutati dal loro subconscio. Molto dello scrivere è subliminale […] Cominciai a scrivere così giovane che avevo la sfrontatezza ridicola che hanno i giovani. Ma mio padre non mi incoraggiò mai in nessun campo. Non era il tipo di padre che ti aspetta al traguardo facendo il tifo per te. Noi avevamo semmai una sorta di amicizia letteraria. Discutevamo, per esempio, della letteratura che piaceva a tutti e due, cioè autori del Diciannovesimo secolo o precedenti» (Andrea Visconti, ”L’Espresso” 12/9/2002). «Quando viaggio sui jet sono un passeggero molto nervoso, ma un bevitore supremamente sicuro di sé. Una volta mi ritrovai a bordo di un aereo costretto ad un atterraggio d’emergenza: mandai giù così tanti valium, accompagnati dal contenuto delle bottiglie acquistate al duty free shop, che riuscii a non capire perché i miei compagni di viaggio si agitassero così tanto. [...] La violenza è l’argomento su cui leggo di più: crimini, operazioni militari della Prima Guerra Mondiale, rapimenti, dolore. Mia moglie dice che si tratta di una pericolosa dipendenza, e ha ragione. Lo faccio perché non riesco a capirla. [...] Alcuni dicono che la satira sia uno strumento per attirare l’attenzione su ciò che si vorrebbe cambiare. Per me, invece, è il mezzo con cui riesco a prendere la massima distanza possibile dai miei personaggi, e quindi ad acquistare la massima libertà espressiv. [...] Il mio lettore ideale è quello che gira in libreria, apre qualche testo a caso, e legge le prime righe o un paio di pagine. Se da quella sfogliatura distratta si convince di avere per le mani un libro che merita di essere comprato e finito, allora ho fatto un buon lavoro. [...] Io resto convinto che la poesia sia il genere sublime. Del resto non mi sembra che ai funerali si leggano i romanzi. Su questo punto io e mio padre eravamo d’accordo, e infatti gli avevo promesso che avrei scritto una collezione di poesie. Allora ogni anno lui mi sfotteva così: Martin, ho rivisto il catalogo dei tuoi libri, ma non ho ancora trovato i versi di cui mi avevi parlato. [...] Mi sono affacciato su questo mestiere proprio con la speranza di scrivere narrativa letteraria. I poeti ci sono ancora e fanno lavori ottimi. La mia teoria sulla scarsa diffusione, invece, riguarda la società. La poesia, in fondo, ferma l’orologio. Sceglie un attimo all’interno di una storia e lo congela, elevandolo ad una funzione simbolica capace di spiegare il tutto. Ma oggi noi, purtroppo, non siamo più capaci di fermarci a contemplare un frammento di tempo» (Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 19/11/2003).