Claudio Magris, Corriere della Sera, 03/12/1999, 3 dicembre 1999
Dalla terrazza si vede tutta la città, le sue luci nel nero vinoso della notte, dolci linee curve di cupole e colline nel grembo dell’oscurità
Dalla terrazza si vede tutta la città, le sue luci nel nero vinoso della notte, dolci linee curve di cupole e colline nel grembo dell’oscurità. Lo small talk ai tavoli imbanditi come si deve a una cena di tutto rispetto, si perde fra il rumore dei bicchieri e delle posate, fluisce in un brusio indistinto; le parole e le voci sono interscambiabili, di tutti e di nessuno, storie accadute a chi è seduto accanto ma che potrebbero benissimo essere successe al commensale di fronte, mormorio che dilegua come un piacevole e indifferente stormire. Le cene di un certo tono sono una sacra rappresentazione, Mistero che mette in scena l’anonima insignificanza di tutti. Ognuno potrebbe stare al posto di un altro o essere un altro, dietro la maschera del ruolo sociale, il volto segnato dagli anni è più o meno il medesimo; davanti a un cocktail uomini e donne sono tutti eguali come davanti all’amore e alla morte, reclute del destino messe in riga nelle loro uniformi. «Ah sì, dice la mia vicina a qualcuno, deve essere successo quando stavo con Federico». Dunque la donna dai capelli neri, pettinati all’insù e dallo sguardo dolce, frequente nei miopi, è una di quelle persone, uomini o donne, che «stanno con», verbo triste e fatale. Tra le cose che distinguono la vita sentimentale degli esseri umani c’è anche la modesta ma non irrilevante differenza fra chi ha la vocazione di «andare con» e chi invece piuttosto quella di «stare con». La prima ha una dignità morale che giganteggia sulla seconda. «Andare con» è un eros schietto e onesto, che non promette falsamente, né a se stessi né ad altri, durata, né simula di condividere il bene ed il male dell’esistenza - come se si trattasse di un matrimonio o di un’unione completa, profonda e duratura - e, proprio per questo franco disincanto, può anche dare tenerezza, affetto e amicizia destinati a durare oltre il breve incontro. «Stare con» è spesso invece l’autoingannevole parodia del matrimonio, significa condividere l’esistenza per sei mesi o un anno ma con tutti gli obblighi e le regole del matrimonio: fedeltà reciproca pro tempore, coppia fissa che deve essere invitata insieme, convivenza, parentato a termine inclusi suoceri e suocere, malinconica ancorché sincera simulazione di essere una sola carne, incapacità di vivere soli. «Stare con» è ben diverso dal rifarsi un’esistenza o fondare una nuova unione sentimentale dopo il fallimento o comunque la fine di una precedente, interrotta dall’incomprensione, dalla morte, dall’incompatibilità o dall’esaurimento affettivo. «Stare con» è la programmazione, consapevole e inconscia, di tanti successivi minimatrimoni, ripostula e prevede a priori. La mia vicina ha un bel viso tenero e ardito; sulla sua bocca non c’è quella piega acidula incisa dalla supponenza aggressiva né quella repulsiva durezza spesso scolpita, in certi ceti, dall’abitudine e soprattutto dal desiderio di sottolineare la propria appartenenza ai signori. Con quel viso, che si intuisce capace di passioni e di tenerezza, quella donna meriterebbe un vero compagno o un amante, piuttosto che un fidanzato, come si usa dire quando «si sta con», ricorrendo a una parola che, già quale preludio ai matrimoni di una volta, suonava alquanto melensa.