Carlo Vulpio, Corriere della Sera, 07/12/1999, 7 dicembre 1999
Cos’altro poteva fare allora Giuseppe Quarta, se non cercare di schivare i colpi, riparandosi alla men peggio con il giubbotto antiproiettile? «Ero nel secondo furgone blindato - racconta -, accanto al mio collega Rodolfo Patera, che guidava
Cos’altro poteva fare allora Giuseppe Quarta, se non cercare di schivare i colpi, riparandosi alla men peggio con il giubbotto antiproiettile? «Ero nel secondo furgone blindato - racconta -, accanto al mio collega Rodolfo Patera, che guidava. Dietro di noi, Raffaele Arnesano. Quando abbiamo visto il camion investire il primo furgone, abbiamo capito subito. Patera ha frenato di colpo e ha innestato la retromarcia. Ma dietro di noi un fuoristrada ci ha bloccati. Il povero Patera allora ha cercato di fare inversione di marcia, ma il panico lo ha paralizzato e il nostro furgone è rimasto lì, inchiodato al suolo, mentre i banditi mascherati ci sparavano addosso. D’istinto, ci siamo rannicchiati, forse ci siamo quasi sdraiati l’uno sull’altro, usando il giubbotto antiproiettile come una coperta. E sempre d’istinto, io sono riuscito ad afferrare la ricetrasmittente e a dare l’allarme. ”Correte! Vogliono ammazzarci, ci stanno ammazzando!”, ho gridato, mentre con Patera ci tenevamo per mano, come bambini terrorizzati. Credo che all’altra parte abbiano sentito le raffiche di mitra e si siano resi conto che eravamo in trappola, come bestie al macello».