Germano Bovolenta, La Gazzetta dello Sport, 09/01/2000., 9 gennaio 2000
L’allenatore della Juventus Carlo Ancelotti e sua moglie Luisa Gibellini si conobbero a Parma ventuno anni fa
L’allenatore della Juventus Carlo Ancelotti e sua moglie Luisa Gibellini si conobbero a Parma ventuno anni fa. Lui aveva 19 anni, lei, di due anni più vecchia, era amica di un Giani che giocava nella Primavera del Parma. Costui, invaghitosi di una sua amica, le chiedeva di continuo di organizzare un’uscita, lei, non avendo voglia di «tenere la candela», alla fine disse di sì ma solo a patto che lui portasse un amico. «Mi fa vedere una foto, una formazione. Io punto il dito sul Faccione, oddio Faccione, allora era liscio e magro: ”Ecco, questo”. Giani storce il naso perplesso: ”Guarda che questo è molto serio e timido, è un bravo ragazzo”. ”E allora”, dico io, ”cosa cambia? Non devo mica sposarlo”». Uscirono insieme e fu amore a prima vista: «Lui viveva nel collegio dei Salesiani a due isolati da casa mia. Carlo nel calcio è sempre stato strategico, ha sempre avuto posizione. Anche da fidanzati. Parcheggiava la sua auto a metà strada fra casa mia e i Salesiani. A metà campo, mancava solo la diagonale. Parlavamo anche di calcio. Anch’io giocavo, prima in porta con la Reggiana e poi terzino a Parma e Roma nella Jolly Gelati. Marcavo a uomo, decisa. Mi dispiace per Carlo e per Sacchi, ma quello era il mio calcio». Il fidanzamento durò quattro anni, «difficili e travagliati perché i suoi non diventavano matti per me. Avevo due anni di più, ero piuttosto indipendente, lavoravo alla Philip Morris dove avevo fatto anche l’hostess al duty free di Fiumicino». I due avevano deciso di andare a vivere insieme ma Liedholm si oppose con tutte le sue forze («Se fai questo ti mando a giocare nella Primavera»). Nell’83 si sposarono: «Anno dello scudetto. Anno meraviglioso, magico. Io e lui assieme, a Roma, con la Roma campione d’Italia: un delirio. Katia è arrivata dopo un po’ e sono arrivati, purtroppo, anche gli infortuni. Un anno sì e uno no Carlo aveva le stampelle». Insieme non fanno che ridere: «Al centro della nostra allegria c’erano spesso le sue stampelle e le ginocchia sbalestrate. Scricchiolava tutto. A Roma, nei primi tempi, abitavamo al quarto piano di un palazzo senza ascensore. Io avevo il pancione e le borse della spesa, lui le stampelle. Si aspettava che il primo vicino ci aiutasse a salire. Certe sere si chinava sulla culla di Katia, in ginocchio, e restava lì a cantare la ninna nanna. Katia si addormentava e lui restava lì. ”E allora, vuoi alzarti?” Lui restava lì e diceva a voce bassa: ”Sssttt, non posso, se mi alzo, scricchiolo e la sveglio”. Si rideva. E si ride e rideremo ancora». Di litigi neanche a parlarne: «Io qualche volta la voce l’ho pure alzata, ma lui non ascolta. Non ci trovi gusto. Una notte, verso le quattro, non so per cosa o per come, volevo farlo arrabbiare. A un certo punto ho preso una sveglia di quelle belle grosse, rotonde, con i campanellini, l’ho caricata e gliel’ho messa sull’orecchio. Sono stata in ginocchio accanto a lui per una ventina di minuti. Venti, lo giuro. E lui, buono, zitto, pacifico, con gli occhi chiusi. Al ventunesimo minuto mi strappa la sveglia dalle mani e la scaraventa contro il muro. Crash, in mille pezzettini. Adesso, penso, mi mena. E invece si alza e raccoglie senza dire una parola le molle e tutti gli ingranaggi e la riaggiusta...».