Christopher Isherwood, La violetta del Prater, Einaudi, 17 luglio 2001
Un pasto da consumare. Il capitolo undici da scrivere. Il telefono che suona. Si esce in taxi, diretti in un posto qualunque
Un pasto da consumare. Il capitolo undici da scrivere. Il telefono che suona. Si esce in taxi, diretti in un posto qualunque. Il proprio lavoro. I divertimenti. La gente. I libri. Le cose che si possono comperare nei negozi. C’è sempre qualcosa di nuovo. Deve esserci. Diversamente, l’equilibrio verrebbe interrotto, la tensione spezzata. «Mi sembrava di avere sempre fatto tutto ciò che il mondo esige. Si nasceva: era come entrare in un ristorante. Il cameriere ti veniva incontro con un sacco di suggerimenti. Dicevi: ”Che cosa mi consiglia?” E mangiavi di conseguenza, e tutti si aspettavano che ti piacesse, perché era un piatto costoso, o fuori stagione, o era stato quello favorito di re Edoardo VII. Il cameriere ti aveva suggerito orsacchiotti, foot-ball, sigarette, motociclette, whisky, Bach, poker, la cultura della Grecia classica. Soprattutto aveva raccomandato l’Amore: un piatto molto strano».