Silvia Ronchey su La Stampa (ttL) del 21/07/01 a pagina 11., 21 luglio 2001
«Rainer Maria Rilke fino a sei anni fu vestito e trattato da bambina. Il suo vero nome era René. Fu un militare mancato, un falso aristocratico, un viaggiatore incantato, un seduttore, un malato, un bohémien, un eremita, un poeta e un mistico
«Rainer Maria Rilke fino a sei anni fu vestito e trattato da bambina. Il suo vero nome era René. Fu un militare mancato, un falso aristocratico, un viaggiatore incantato, un seduttore, un malato, un bohémien, un eremita, un poeta e un mistico. Scrisse: "Alle grandi e misteriose garanzie su cui si regge la mia vita appartiene anche il fatto che la Russia è la mia patria». Con Lou Salomé sfilò reggendo la candela nelle processioni e incontrò il vecchio Tolstoj. Secondo Rilke le opere d’arte nascono dalla paura e sono fatte con la paura, la morte è la maturazione della vita, il bello non è che il tremendo al suo inizio. L’arte? La gloria? L’importante, diceva, è sopravvivere. Rilke scrisse in anticipo il suo epitaffio: «Rosa, oh pura contraddizione, gioia / di non essere il sonno di nessuno sotto tante / palpebre". Rilke predilesse le icone bizantine e Cézanne. Amò Mosca, Pietroburgo, la steppa grande-russa, Berlino, la brughiera anseatica tra Amburgo e Brema, Parigi, Viareggio, la Danimarca, Capri, Lipsia, le oasi dell’Algeria, Karnak, il Cairo, il Nilo, Venezia, Duino, la Spagna, il lago Lemano. Detestò Praga. Lo inquietò Roma perché i suoi cieli non sono l’inizio di grandi distese ma una conclusione, un sipario, una fine. Fu amico di Stefan George, di Eleonora Duse, di Zweig, di Gide, di Hoffmannsthal, di Leonid e Boris Pasternak. Amò e odiò Auguste Rodin come un padre. Da giovane, scrisse un "Libro d’ore" e un "Libro della vita monacale" e un "Libro del pellegrinaggio" e un "Libro della povertà e della morte". Rilke era un solitario, un monaco, un povero di spirito, un pellegrino ossessionato dalla morte. Aspettare la gente, avere bisogno della gente, cercare la gente lo faceva affondare ancora di più nel buio della melancolia. Fu sul punto di farsi psicanalizzare da Freud. Non lo fece per non guarire dalla poesia. Gli piacquero l’"Iperione" di Hölderlin, il "Cimitero marino" di Valéry, i culti sepolcrali del paganesimo antico, che come lui riconoscevano un unico aldiquà esteso anche al regno dei morti. Sii sempre morto in Euridice, scrisse. Nei "Sonetti a Orfeo" Rilke invocò e festeggiò il dolore e la morte. Il 29 dicembre del 1926 morì di leucemia. Marina Cvetaeva era certa che sarebbe rimasto sulla terra ancora tre giorni e gli augurò un bel paesaggio celeste nell’anno nuovo» (Silvia Ronchey).