Domenico De Masi, "Il futuro del lavoro", Rizzoli, 5 settembre 2001
I paesi dell’Ocse (tra i quali c’è l’Italia) godono di una ricchezza che aumenta del 2 per cento l’anno: questa ricchezza dipende sempre meno dal loro lavoro e sempre di più dagli impianti automatizzati e dal lavoro sottopagato dei cittadini del Terzo mondo
I paesi dell’Ocse (tra i quali c’è l’Italia) godono di una ricchezza che aumenta del 2 per cento l’anno: questa ricchezza dipende sempre meno dal loro lavoro e sempre di più dagli impianti automatizzati e dal lavoro sottopagato dei cittadini del Terzo mondo. I cittadini dell’Ocse, tuttavia, non riescono ad uscire dalla logica secondo cui la qualità della propria vita dipende dal proprio lavoro e non riescono a riprogettarla basandola anche sulle attività che escono dai consueti criteri di definizione del "lavoro". Poiché il lavoro diminuisce, per continuare a usarlo come parametro per la distribuzione della ricchezza (che peraltro aumenta) bisogna allargare il concetto di lavoro e remunerare le attività finora svolte gratis. Per esempio: se una casalinga cresce ed educa i suoi figli non viene pagata, se svolge lo stesso compito in un asilo con i figli di un altro riceve un salario. Se gli universitari ricevessero uno stipendio mensile, potrebbero essere incentivati a studiare con regolarità e le loro famiglie non dovrebbero fare salti mortali per mantenerli agli studi. In questo modo viene valorizzata la formazione, che porta ricchezza e sviluppo a tutta la società: «In un mondo in cui la ricchezza cresce ma è sempre meno prodotta dall’uomo, è impossibile ridistribuirla in base al lavoro umano: occorre trovare nuovi criteri, capaci di coniugare i meriti con i bisogni».