Fabio Cavalera su la Repubblica del 10/12/01 a pagina 5., 10 dicembre 2001
A Kabul molte famiglie vivono in case senza mobili, venduti per comprare il riso della peggiore qualità, di nome Shulla (sette chili costano centomila afghani, seimila lire circa) oppure il tè nero che non manca mai: un chilo si trova sulle bancarelle per 70-120 mila afghani, tra le quattro e le seimila lire (chi è allo stremo baratta una tessera dell’Organizzazione mondiale contro la fame, che dà diritto a ritirare periodicamente un pacco di cibo, con un chilo di riso, subito)
A Kabul molte famiglie vivono in case senza mobili, venduti per comprare il riso della peggiore qualità, di nome Shulla (sette chili costano centomila afghani, seimila lire circa) oppure il tè nero che non manca mai: un chilo si trova sulle bancarelle per 70-120 mila afghani, tra le quattro e le seimila lire (chi è allo stremo baratta una tessera dell’Organizzazione mondiale contro la fame, che dà diritto a ritirare periodicamente un pacco di cibo, con un chilo di riso, subito). Tra generi di prima necessità e altri beni non esiste proporzione alcuna: ad esempio un affitto mensile costa 200 mila afghani, stessa cifra di un un burka di seta, di un paio di chili di tè nero o di tre paia di scarpe. Un chilo di patate o di carote o un pollo costano seimila afghani (tre-quattrocento lire), un chilo di mele cinquecento lire, un chilo di pomodori ottocento lire. La carne, esposta nei bazar o conservata nei bauli delle macchine, costa tre-quattromila lire, ma è impossibile sapere dove e da chi sia stata macellata. Un paio di calze da uomo, di fabbricazione cinese o pakistana, è venduto a mille lire.