Eva Cantarella, La Macchina del Tempo, n. 1 gennaio 2002 pagg. 7-11, 1 gennaio 2002
Ancora una volta, in questi giorni, si è parlato di Pompei come della ”città dell’amore”. La ragione è legata all’apertura al pubblico di un edificio recentemente scavato e restaurato: le Terme suburbane, già note per le otto pitture erotiche che sono state rinvenute al loro interno
Ancora una volta, in questi giorni, si è parlato di Pompei come della ”città dell’amore”. La ragione è legata all’apertura al pubblico di un edificio recentemente scavato e restaurato: le Terme suburbane, già note per le otto pitture erotiche che sono state rinvenute al loro interno. Pompei a luci rosse, dunque? Come dicevamo la fama è antica. Gli scavi archeologici (che ebbero inizio nel 1748, per ordine di Carlo di Borbone) portarono infatti alla luce, fin dal loro inizio, raffigurazioni erotiche, bordelli, statue, bassorilievi e un’incredibile quantità di oggetti che rappresentavano organi genitali maschili, non di rado di dimensioni abnormi. Cerchiamo di capire se questa fama è meritata, cominciando a occuparci dei bordelli. Che a Pompei esistessero locali di questo tipo non può certo sorprendere. La prostituzione nel mondo romano era considerata un’ istituzione socialmente utile: se sfogavano i loro istinti con le prostitute, si pensava, gli uomini non rischiavano di attentare alla virtù delle donne oneste. Ovvio, dunque, che anche a Pompei ci fossero le prostitute: lupae, le chiamavano i romani, o meretrices (meretrici), dal verbo merere, guadagnare. Se cercavano clienti passeggiando nelle strade, poi, le chiamavano ambulatrices (passeggiatrici); se lavoravano sotto i fornices (ponti) fornicatrices; se esercitavano di notte noctilucae (lucciole).