Varie, 8 febbraio 2002
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AbdulJabbar Kareem
• ABDUL-JABBAR Kareeem (Ferdinand Lewis Alcindor Jr) New York (Stati Uniti) 16 aprile 1947. Ex giocatore di basket. Già fuoriclsse di Ucla (3 titoli universitari), tra i «pro» ha vinto 6 titoli, uno a Milwaukee e 5 con i Lakers. È il miglior marcatore di sempre. Ha avuto parti in vari film, tra questi l’Aereo più pazzo del mondo • «[...] il più grande realizzatore della storia della Nba, il miracoloso centro dell’imbattibile Ucla, l’università di California Los Angeles, l’uomo quieto e decisivo, col suo gancio cielo, dello Showtime dei Lakers anni 80 [...]» (Luca Chiabotti, “La Gazzetta dello Sport” 11/11/2009) • «[...] è sempre stato un profeta. Uno che indica la strada. È stato il più carismatico giocatore di basket professionistico d’America – più di Magic Johnson, Doctor J e Jordan – perché la sua presenza in campo, nella squadra, nel campionato, ha sempre travalicato il fattore meramente sportivo, l’eccellenza atletica, la sua attitudine alla leadership, portando con sé un fattore aggiuntivo imprescindibile, fatto di dignità, consapevolezza, quoziente sociale che andava oltre infilare con inquietante regolarità la palla nel cesto, a colpi di “ganci cielo” – il suo tiro prediletto. Kareem era lì anche per dare spessore allo sport, per dargli significati ulteriori e condivisibili, per attenuare le tensioni e gli eccessi e per fungere da pesce pilota per tanti ragazzi che guardando a lui vedevano un raggio di luce. Kareem, del resto, quella vita l’aveva fatta da sempre. Venuto su ad Harlem in una famiglia in cui la cultura veniva al primo posto, quando, a soli dodici o tredici, capisce che con la sua messe di centimetri (217) e con la grazia con cui si muove per il campo e tratta la palla, avrebbe costruito il proprio futuro e avrebbe avuto l’opportunità di parlare al mondo, si assoggetta con tranquilla disciplina al proprio destino. Jabbar, che prima della conversione all’Islam si chiama Lew Alcindor, è stato una stella praticamente per tutta la vita, a cominciare dal playground sulla 125sima, lo stesso in cui sono fiorite le più straordinarie leggende sportive di New York (e le più affascinanti sono quelle su coloro che non ce l’hanno fatta, che si sono persi per strada, restando modeste glorie locali invece che proiettarsi sul palcoscenico assoluto). Il giovane Lew invece la trafila la fa tutta: da ragazzino porta la sua scuola, la Power Memorial, a diventare la più famosa d’America, facendole vincere settantadue partite di seguito. Poi, al servizio della losangelina UCLA domina il campionato universitario, vincendo tre titoli in quattro stagioni, due volte miglior giocatore assoluto, addirittura responsabile della temporanea messa fuorilegge della schiacciata, che rendeva la sua presenza troppo dominante. Tra i “pro” Lew diventa, a inizio 70, “il nobile servitore del Potente” (come si traduce il nome di Kareem Abdul Jabbar) e anche il faro assoluto della Lega: vince campionati a grappoli, prima coi Milwakee Bucks, poi coi LA Lakers e più diventa adulto più la sua figura diventa quella di un riverito leader, sia razziale che di un attitudine allo sport e alla cultura americana, fatta di decenza, dedizione, sforzo. Mentre il suo corpo poco a poco invecchia sul campo, la sua mente resta vulcanica: apprende le arti marziali da un maestro d’eccezione come Bruce Lee, vede malinconicamente bruciare la sua casa di LA dentro la quale conservava la sua celebre collezione di dischi jazz, una passione trasmessagli dal papà musicista e al momento del ritiro, a fine anni Ottanta è salutato dalla commozione e dalla devozione che si riserva al primo sacerdote di un onorato culto. Ma Jabbar non diventa un ex. E ha finalmente il tempo per dedicarsi alle sue vere passioni, quelle sempre sacrificate al dovere – lungo una vita – d’infilare la palla nel canestro. L’ha sempre detto: non avesse avuto in sorte “l’obbligo” di diventare un atleta professionista, avrebbe fatto il professore di Storia. E [...] la sua passione per la storia afroamericana gli ha ispirato un libro bellissimo, raro esempio di come la descrizione di un’epoca e di un ambiente possa essere interpetato dall’autore con una compartecipazione motivata dall’essere stato lui stesso uno dei protagonisti di quello scenario. Il volume s’intitola On the Shoulders Of the Giants, sulle spalle dei giganti, frase Jabbar che prende in prestito da Isacco Newton, per significare l’importanza da attribuire a coloro che ci hanno fornito gli esempi coi quali siamo cresciuti. Organizzato in forma di domanda e risposta secondo il canone dell’insegnamento orale della cultura dell’Africa occidentale, il saggio raccoglie una serie di “lezioni” sul Rinascimento di Harlem, il quartiere del giovane Lew in quel particolare ventennio tra anni Venti e Quaranta, durante i quali il quartiere Nero di New York riscatta la propria natura miserabile e marginale, per imporsi come motore culturale dello splendore artistico cittadino, come vettore dell’integrazione del black culture e come teatro del laboratorio creativo di strada che mette nello stesso calderone arte e coscienza, musica e sport, poesia e politica, jazz ed educazione civica, sessualità e ambizioni. Duke Ellington e Louis Armstrong, Langston Hughes e Jacob Lawrence in quel periodo convergono nel modesto rettangolo urbano di Harlem, attirati non tanto da un senso di unità (“questa è la visione disneyana dei fatti”, sostiene Jabbar) ma dal fatto che quello fosse un buon posto dove rifugiarsi, organizzarsi e cercare i modi per dare l’assalto alle durezze della società americana del tempo, tanto più per una mente creativa in un corpo nero. “La gente di cui scrivo, ha combattuto e sofferto, e io desidero che di ciò si tenga conto. Vorrei che la loro storia ispirasse il lettore così come ha ispirato me”, scrive Kareem. E le sue pagine rendono omaggio a tutti quegli intellettuali che hanno formato la sua giovinezza, Malcolm X in testa, e poi a quegli artisti, Miles Davis in testa, che hanno dato forma alla spericolata esperienza della sperimentazione creativa. Su, fino alla storia più appassionante di tutte: quella dei dimenticati Harlem Renaissance – Rens per gli appassionati – che in una nazione nella quale ancora agiva indisturbato il Ku Klux Klan, ebbe l’ardire di presentarsi come squadra di pallacanestro fatta solo di giocatori neri, puntualmente esclusi dalle competizioni ufficiali. “Senza i Ren e senza quei grandi giocatori, la vera storia del mio sport in America non sarebbe mai stata scritta”. I Rens giocavano ai margini, venivano invitati per qualche sfida estemporanea, in cui puntulmente davano lezione agli educati atleti bianchi. Ma ogni partita non faceva altro che offrire un motivo di riflessione in più. [...]» (“Il Foglio” 22/2/2007) • «[...] Eravamo i Lakers, la squadra di Hollywood, delle celebrità, dei ricchi e famosi. Volevano che fossi gentile con i giornalisti, che raccontassi i pettegolezzi, chi vedevo, con chi andavo a letto, le orge dell’Nba. Mi chiesero di essere più morbido, di avere glamour, che mi ci voleva? [...] Bè, mi ci voleva: a sopportare tutte quelle domande cretine, per me che sono laureato e appassionato di storia, che vengo da una famiglia con padre poliziotto. Non davo confidenza, non intendevo intrattenere Hollywood con il mio privato. Le orge, sì. Un pochino, e allora? Così mi guadagnai la fama di persona ostile, inavvicinabile. Un mostro [...] Sono stato il neonato più grande mai nato al Sydenham Hospital di New York. Ho preso la stazza da mio padre, che da ragazzo caricava le stecche del ghiaccio. Siediti, mi dicevano all’asilo. Ma sono seduto, protestavo. Sempre all’ultimo banco, dietro a tutti, nelle scuole di Harlem. Già alle elementari ero più alto del maestro. A nove anni, 1 metro e 77 centimetri. Un freak per i miei compagni, il canestro invece era alla mia altezza [...] Erba, Lsd, eroina, cocaina. Si fumava, si sniffava, si tirava. Diavolo, erano gli anni Sessanta, c’era il movimento hippy, si sognava un altro mondo. Io stavo all’università di Ucla, solo. Niente più genitori e scuola cattolica. Le tavolette di acido costavano 2 dollari e 50 al pezzo, ti facevano sentire liquido e bello. Tutti si drogavano, sedevo con gli amici sulle colline di Los Angeles, guardavamo le stelle, pensieri cosmici. Era un trip collettivo. Avevo 19 anni, mi piacevano quelle sensazioni. Un po’ meno la paranoia e la depressione che arrivavano dopo. Scoprii che ci si poteva eccitare in un altro modo. Lessi l’autobiografia di Malcom X. Rimasi folgorato. Si poteva non essere più solo negri. Veramente tutto quello che volevamo era andare nelle stesse toilette dei bianchi? C’era di più, ma bisognava non farsi male [...] Bruce Lee mi insegnò a incanalare la mia rabbia nelle arti marziali. Ho praticato yoga e meditazione [...] Avevamo studiato, avevamo alle spalle una famiglia. Mio padre [...] aveva suonato con Count Basie, Dizzy Gillespie, Benny Carter. Faceva parte dell’orchestra che al Madison Square Garden accompagnò la serenata di Marilyn Monroe a John Kennedy nel ’62. [...] Io sono nato due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ai tempi in cui nelle scuole c’era ancora la segregazione, in cui se andavi al sud ti dicevano di tenere gli occhi bassi e di non sbagliare marciapiede. Zitto, negro, e fila via. Così rifiutai la nazionale [...] Sono stato tra i primi a convertirmi con Mohammad Ali. Mi chiamavo Lew Alcindor. Tutti a chiedermi: che è questo Islam? Anche i miei, molto scandalizzati. Cercavo di essere discreto, chiedevo alla gente di togliersi le scarpe quando veniva a trovarmi. Ma giocavo a Milwaukee, posto di tedeschi, polacchi e contadini. Troppi cattolici. Difficile fare buone conversazioni, tenere alto il livello, evitare di bere. Dove altro puoi andare nel Wisconsin se non al bar? Così chiesi di essere ceduto [...] Io avevo sempre tre avversari addosso, con il diritto di fermarmi in ogni modo, perché ero il più grosso. Mai chiesta protezione [...]» (Emanuela Audisio, “la Repubblica” 31/12/2005).