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 2002  febbraio 08 Venerdì calendario

Abramovic Marina

• Belgrado (Serbia) 30 novembre 1946. Artista. Famosa interprete del movimento della Body art, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997 • «È il 1974, al centro culturale studentesco di Belgrado traccia sul suolo il profilo della stella di Tito. Dispone lungo il perimetro delle 5 punte trucioli di legno imbevuti con 100 litri di benzina. Accende il fuoco, si taglia i capelli, le unghie dei piedi e delle mani e li brucia. Poi entra a sua volta nello spazio vuoto della stella. Perde i sensi, ma il pubblico non se ne accorge. Quando i suoi piedi cominciano a bruciare due persone intervengono e la salvano. Questa performance estrema, violenta, tremendamente poetica e premonitrice della distruzione della Jugoslavia e dell’intero mondo comunista, segna allora il punto oltre il quale il corpo dell’artista non può spingersi. Nel ’76 - trentenne figlia di un eroe nazionale e di una partigiana direttrice del Museo d’Arte Contemporanea - già famosa, osteggiata e minacciata in Jugoslavia, lascia Belgrado e vive per cinque anni come una nomade, in giro per l’Europa, con il suo compagno Ulay (nato il suo stesso giorno e anno) in un’automobile acquistata dalla polizia francese. Le innumerevoli performance fatte per spostare ogni volta il limite fisico e emotivo di sè stessa - così come il limite di sopportazione o di aggressività del pubblico - sono documentate in due grandi volumi, curati dal critico dell’“arte povera” Germano Celant e pubblicati in inglese dalla casa editrice Charta. Artist Body e Public Body, questi i loro titoli, rendono tutta insieme pubblica la vita di questa donna carismatica, a volte fragile e fortissima, che ha ribaltato completamente i parametri dell’arte contemporanea femminile in modo irripetibile. Il suo corpo e la sua vita si dirigono [...] verso le energie primarie, verso una ricerca di relazioni fisiche e mentali interpersonali, filtrando con largo anticipo cambiamenti, storie e eventi sociali. In Liberation of the Horizon, negli anni ’70, rimuove dalle cartoline di Belgrado gli edifici principali per liberare l’orizzonte urbano dall’oppressione visiva del potere. Nel 1999 quegli stessi edifici furono bombardati e distrutti dalla Nato. La magnifica avventura dell’artista, accoppiata a Ulay in tutte le performance per 12 anni, si interrompe e ricomincia sulla Muraglia Cinese nel 1988, quando, dopo 8 anni di attesa per ottenere i visti per la Cina dal governo, i due performer riescono a partire. Durante questa interminabile attesa il loro rapporto s’incrina e, quando arrivano a destinazione, decidono di percorrere la muraglia a piedi separatamente. Lei parte dal Mar Giallo, lui dal Deserto del Gobi. Dopo 90 giorni e duemiacinquecento chilometri sotto i piedi, i due s’incontrano a metà strada e si separano per sempre. “È stato molto doloroso” ribadisce Marina, ma questa immane esperienza la porta a rivoluzionare la sua esistenza e ad agire solitaria. “Sulla muraglia - racconta - per la prima volta in vita mia stavo facendo una performance senza pubblico, così mi sono chiesta come potessi trasmettere il mio stato d’animo agli altri. Essere lì mi procurava un cambiamento emozionale e fisico intensissimo, perché la Muraglia è costruita sulla linea magnetica del pianeta. La relazione mentale e fisica cambia a seconda di dove camminiamo. Quando la notte scendevo dalla Muraglia per dormire nei villaggi, chiedevo chi fosse la persona più anziana. Un giorno ho incontrato un uomo di 136 anni. La Muraglia è intrisa di leggende sul dragone e il dragone è l’energia”. Da quel momento, Abramovic decide di coinvolgere il pubblico nella sua stessa esperienza, ma non in modo realistico, naturalmente. Così inizia a sperimentare il Public Body, il corpo del pubblico, che diventa protagonista delle performance fatte con metalli, quarzi, stoffe colorate, magneti, camomilla, salvia. I Transitory Objects, oggetti transitori, concepiti per non permanere, sono dati in uso per fare esperienza. È come se, da quel momento, il corpo di Marina avesse realizzato di essere solo una cellula di un corpo più grande e vasto: il corpo sociale, pubblico. Così in Giappone, in un piccolo villaggio di 82 abitanti [...] ha istituito una “casa dei sogni”, un luogo di purificazione con oggetti da utilizzare secondo istruzioni precise: bicchieri d’acqua con magneti, tute protettive, telefono telepatico inusabile, vasche da bagno piene di erbe e letti-cassa illuminati da luci colorate, dove dormire e sognare per una notte, ciò che sarebbe poi stato registrato in un quaderno. Oppure, al Kunstmuseum di Bonn, offriva vasche piene di fiori di camomilla essiccata dove riposare e riacquistare energie. Come una specie di dottore dell’anima, spesso in camice bianco, l’artista accoglie chiunque aiutando la rinascita di sensazioni primordiali. C’è voluto il suo sangue, mentre si tagliava la pancia per incidere una stella, c’è voluto il serpente che la stritolava, c’è voluta la collusione pubblica con il corpo nudo di Ulay, e ci sono voluti moltissimi chilometri affinché lo incontrasse sulla più grande opera del mondo, per capire che “alla fine si è sempre soli, qualunque cosa si faccia”. E ci sono volute altre esperienze estreme - come quella di autorizzare il pubblico, nel ’74, a usare su di lei a piacimento 72 oggetti, morbidi e contundenti, compresa una pistola carica-prima che la sua presenza prendesse facce e corpi diversi, multipli, accidentali» (Manuela Gandini, “La Stampa” 5/8/2001) • «Su incarico della Fondazione Antonio Ratti di Como, assitita dalla casa editrice Carta, ha tenuto il corso sul tema del prendere coscienza delle possibilità che il nostro corpo ci offre di “Generare, utilizzare e controllare l’energia, attraverso una pratica quotidiana di esercizi fisici e spirituali, tra cui la pratica del digiuno, del silenzio prolungato, dell’astinenza; altri esercizi hanno invece condotto a una maggiore consapevolezza della respirazione e delle aree corporee da cui emerge l’energia interiore”. I visitatori sono stati invitati ad indossare delle protesi concepite per raccogliere e rafforzare i campi energetici attorno e dentro la persona. Gli “abiti di energia” sono stati immaginati per attivare, tramite magneti circolari, alcuni punti energetici del corpo (testa, occhi, cuore, plesso solare, spina dorsale) basandosi sulla forma del cono, che già dai tempi delle streghe medievali e dei loro alti cappelli reca in sé il proposito di intensificare la forza e la percezione. Questi cappelli alti oltre un metro sono stati realizzati in colori brillanti come il rosa scuro, il verde, il blu, il giallo. Abramovic, con gesti elegantissimi e discontinui, situa forme immaginarie in uno spazio arbitrario, mirando a quelle labili e affascinanti vegetazioni che indicano che in una certa zona giace sepolta (ma miracolosamente attiva) un’energia. Essa coinvolge lo spettatore in un rapporto di calcolata inconsistenza ma sempre minutamente lavorata. Lo stimolo, lo assale con una sorta di agopuntura formale in modo che il pubblico sia costretto ad una tensione interpretativa: vale a dire a ordinare e chiarificare i messaggi apparentemente disordinati che lo raggiungono, a decifrare una difficile coerenza» (Lea Vergine, “Corriere della Sera” 28/7/2001).