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 2002  febbraio 08 Venerdì calendario

ACCARDO Salvatore

ACCARDO Salvatore Torino 26 settembre 1941. Violinista. Direttore d’orchestra. Studi di violino al conservatorio di Napoli, perfezionamento a Siena. Ha esordito in pubblico all’età di tredici anni con i Capricci di Paganini. Ha vinto vari concorsi violinistici (Ginevra 1956, Paganini di Genova 1957). Intensificata in seguito l’attività cameristica, ha fondato a Napoli il Festival delle Settimane Internazionali di Musica. Dedicatosi alla direzione d’Orchestra, ha debuttato in campo operistico nel 1987 al Rossini Opera Festival di Pesaro • «Dice Salvatore Accardo che i violini hanno una voce magica, e sanno raccontare la loro storia: “Perché li plasma il legno, materia che si modifica di continuo, in un perenne dinamismo di molecole. Un violino, mentre è suonato, trasmette allo strumentista le sue vibrazioni: la connessione è profonda. Se è stato suonato bene il violino ringrazia. È una testimonianza viva della propria storia e dei musicisti che lo hanno avuto. E può assorbirne i pregi o i difetti”. [...] Accardo dispone di due strumenti pregiatissimi: uno Stradivari del 1727 e un Guarneri del Gesù del 1734. “Sono entrambi molto potenti. Ma è diversa la qualità del suono. Quello del Guarneri è più scuro, preferibile per Schumann o Brahms, mentre lo Stradivari è adatto a Mozart e a Beethoven, compositori che richiedono un suono più chiaro”. Lo Stradivari di Accardo è stato suonato per quarantacinque anni dal leggendario violinista Zino Francescatti. “Poi volle che fossi io a prenderlo. Quando smise di suonare mi chiamò a Marsiglia, dove viveva, per farmelo acquistare. Era il violino che suonava meglio al mondo. Ricordo la prima volta che lo suonai: la sua intonazione era così perfetta che pareva fare tutto da solo. Poterlo avere mi sembrò parte di un destino. Negli anni Cinquanta ascoltavo i dischi di Francescatti con mio padre e gli dicevo: questo è il suono che vorrei. E lui, da buon napoletano, fiducioso negli incantesimi, sosteneva: un giorno sarà tuo”. È sempre tanto intenso il rapporto che unisce il violinista al suo strumento? “Certo. Diventa come un’appendice del suo corpo. Si stabilisce una simbiosi, una storia d’amore. O di odio. Ci sono strumentisti che maltrattano lo strumento, a cui trasmettono le loro nevrosi. Se qualcosa non va ne danno la colpa a lui, lo fanno aprire, ne stravolgono gli accessori. E ogni volta per il violino è un trauma, come un’operazione chirurgica per una persona. Mai sezionare se non è necessario. Francescatti non cambiò accessori per quarantacinque anni, e io, quando ho avuto il suo violino, mi sono limitato a sostituire il ponticello, che era lo stesso da quasi mezzo secolo [...] lo curo, lo controllo, ne seguo il benessere in ogni dettaglio. Nelle soste lo metto a riposo allentando le corde, altrimenti restano in tensione. Quando torno a suonare è magnifico ritrovare la nostra relazione, che si arricchisce a ogni incontro [...] Ho più confidenza con lo Stradivari. [...] ci conosciamo alla perfezione. È generoso e affidabile, e dà sempre tutto ciò che ha. Ci sono violini che suonano meno bene in sale brutte, troppo umide o troppo secche. Lui, invece, offre il massimo ovunque lo suoni. Il Guarneri è più presuntuoso: esige solo sale bellissime”» (Leonetta Bentivoglio, “la Repubblica” 9/4/2006) • «[...] è molto popolare in Sud-America [...] Il primo concerto [...] l’ha tenuto nel 1961 ed era al Colòn anche in un pomeriggio di fine luglio del 1969, mentre l’astronauta americano Neil Armstrong stava ormai per allunare e iniziare la sua incantevole passeggiatina. Quella sera, al Teatro Coliseo, dedicato di preferenza alla musica da camera, avrebbe suonato l’Amadeus, uno dei Quartetti d’archi che hanno costruito la storia dell’interpretazione della musica del Novecento. Norbert Brainin e Siegmund Nissel violini, Peter Schidlof viola, Martin Lovett violoncello. Suonavano assieme dal 1947, resteranno uniti per quarantanni esatti, fino alla morte di Schidlof; poi, gli altri tre decideranno di non sostituirlo: erano nati, come quartetto, assieme, non potevano pensare di continuare a esistere senza uno di loro. Accardo, che aveva ventisette anni, per sentire, vedere da vicino quel vero mito musicale si era sistemato dietro le quinte del palcoscenico. In programma, anche l’opera 130 di Beethoven, uno dei suoi ultimi quartetti, scritti per sé, arditissimi, meravigliosamente sperimentali, inusuali nella forma, esempio perfetto di come la tradizione non sia altro che un accumularsi di novità, talvolta così sconcertanti da venire, all’inizio, rifiutate. All’inizio del terzo movimento, Schidlof sbaglia l’attacco, proprio nel punto in cui è il suo strumento, la viola, a condurre il discorso musicale. Il concerto continua, l’errore viene assorbito dagli interpreti. Che è successo a quel punto? “Gli applausi non finivano più e l’Amadeus continuava a rientrare in palcoscenico per ringraziare. Poi, dopo l’ultima uscita, con una determinazione calma e rabbiosa, guardandolo bene in faccia, senza dire nulla, senza nemmeno aspettare di ritornare in camerino e di regolare la questione a quattr’occhi, Brainin ha mollato uno schiaffo tremendo a Schidlof. Reazioni? La sua guancia rossa, paonazza. Nient’altro, non una parola, un gesto di risposta. Schidlof si è tenuto lo schiaffo: sapeva perché [...] Uno sbaglio capita, soprattutto in quartetto, quando devi ascoltare te stesso e insieme ascoltare gli altri. E se si dovessero schiaffeggiare tutti i musicisti ogni volta che sbagliano...! Ma l’Amadeus non poteva sbagliare... Pensava di non potersi permettere di sbagliare. Questo è straordinario, indimenticabile per me: erano già ai massimi livelli, eppure la coscienza artistica restava vigile, inesorabile, non faceva mai sconti, loro erano i primi giudici di se stessi, i più severi. Quella sera, quasi nascosto in quel palcoscenico, ho capito davvero cosa significa eccellere: non rimuovere mai l’errore, non far finta di niente, anzi renderlo evidente, capirlo, superarlo. Non provare a nasconderlo sotto gli applausi, le recensioni favorevoli, i complimenti degli amici. Una lezione durissima eppure giusta, indiscutibile [...] Mi ricordo bene quel lunghissimo silenzio dopo il rumore della mano sulla faccia. E non era una manina. Anche loro sapevano perché” [...]» (Sandro Cappelletto, “La Stampa” 25/8/2004) • Nel 1986 ha dato vita alla scuola di Cremona: «Nel silenzio dell’aula dell’Accademia Walter Stauffer di Cremona, il suono del suo violino, famoso nel mondo incanta i giovani musicisti che vengono qui da tutta Italia per studiare con il maestro: novanta preziosissimi minuti ciascuno, una volta al mese. Corsi gratuiti dal 1986, un privilegio riconosciuto a quei pochi che superano la prova d’ammissione. Lezioni che iniziano con un sorriso. E proseguono con l’esecuzione di brani spesso molto difficili. Lui, concentratissimo, ascolta. Poi, arrivano i suoi consigli. Richieste puntuali di raggiungere la perfezione filtrate da una voce calda e paterna [...] Per i migliori ha creato nel novembre del 1996 l’Orchestra da Camera Italiana, di cui è anche direttore musicale» (Paola Sconzo, “Specchio” 17/1/1998) • «In questo paese le orchestre chiudono per colpevole menefreghismo, basti pensare alla scomparsa dei complessi Rai di Napoli, Roma e Milano. Ecco perché bisogna reagire [...] Ancora più importante però è l’occasione di suonare in gruppo. Sapete che nei Conservatori italiani la musica da camera e la pratica orchestrale non sono materia d’insegnamento? È pazzesco: studiano tutti da solisti. Ma quanti lo diventeranno davvero? [...] All’esame di diploma, è obbligatorio portare i terribili capricci di Paganini [...] così i ragazzi perdono mesi, si spaccano le mani per ottenere risultati meno che mediocri. In compenso, se non hanno un bravo maestro, ignorano il grande repertorio [...] Per forza i conservatori sfornano disoccupati [...] I nostri corsi sono gratuiti. A Cremona, seleziono ogni anno una quarantina di candidati e ne trovo quattro-cinque di valore. Vedo diplomati con il massimo dei voti che non sanno tenere in mano l’archetto. I giovani devono sapere che con il talento si nasce. Studiando si sviluppa, ma non si crea. Inutile arrivare a vent’anni per scoprire di non averlo, e colpevoli quei docenti che non sanno distinguere [...] Qualcuno si è mai chiesto perché tra i giovani strumentisti non ci sono drogati? Per me è chiaro: chi entra in contatto con la spiritualità della musica non ha bisogno di cercare altro» (Manuela Campari, “Il Venerdì” 3/1/1997) • Grande tifoso della Juventus: «Sono nato casualmente a Torino e lì ho vissuto i primi sette giorni della mia vita. A quanto pare sono bastati per farmi innamorare. Era il ’41, anni di guerra: mio padre era in Germania, mia madre a partorire salì a Torino a casa della sorella, in via Nizza. E proprio Otello, il cugino torinese preferito, maggiore di me di 17 anni, mi ha inculcato l’amore per i bianconeri. Fu lui a portarmi allo stadio, al Vomero, a vedere Napoli-Juve, la prima partita della mia vita. Ero bambino, gridavo: “Forza Juventus”, Otello mi corresse: “No, non così. Grida Forza Juve, è più corto, si sente meglio e risparmi fiato”. Detto, fatto. Un tifoso del Napoli lì di fianco mi mise in riga; “Guaglio’, se non stai zitto ti butto abbasso”. [...] Mio padre era una persona straordinaria. Incisore di cammei, faceva i ritratti dalle fotografie. Il suo ultimo lavoro furono i presidenti degli Stati Uniti e quei cammei sono a New York, esposti al Metropolitan Museum. [...] Giocavo di nascosto perché mio padre aveva paura che mi ferissi alle mani. Erano soprattutto tornei in spiaggia, ero bravo, specialista nel parare i rigori. Mi videro alcuni dirigenti del Napoli e vennero a casa per parlare con mio padre. Lui li cacciò in malo modo. [...] Papà era un grande appassionato di violino e lo insegnava chissà come perché non aveva mai studiato musica. Si era fatto questa idea di mordicchiare le dita agli allievi per far crescere i calli. Voleva farlo anche con me, lo stoppai: “Non ti permettere, sai...” [...] Quando ha capito che avevo talento, mio padre non ha più toccato il violino. [...] Non mi è mai piaciuto correre. Io mi sentivo portiere e non è un caso se il giocatore che ho ammirato di più è stato Zoff. Lo conosco molto bene, quando abitavo a Roma ci vedevamo spesso e andavamo allo stadio insieme. Sono molto affezionato a lui e a quella Juve: a Cabrini, Scirea, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek... La Juve di Boniperti e Trapattoni. Mi manca molto quel calcio. Perché c’era più gioco, perché quel che contava era l’evento sportivo. Hanno tirato troppo la corda. Troppa gente si occupa di calcio soltanto per interesse, vedo presidenti che cambiano squadra e città saltabeccando, dov’è la passione? [...] Adesso con satelliti e parabole è facile essere aggiornati in qualsiasi parte del mondo, ma quand’ero giovane in tournée dovevo arrangiarmi. Telefonavo ai consolati e ai ristoranti italiani. Più di una volta sono andato nei consolati ad ascoltare Tutto il calcio: ero già abbastanza conosciuto, non mi dicevano di no. Le voci della radio fanno parte della mia vita. La morte di Sandro Ciotti mi ha dato grande dolore: era un vero appassionato di musica, veniva spesso ai miei concerti e insieme abbiamo giocato tante partite a scopone, per fortuna in coppia. Perché Sandro era una persona veramente deliziosa tranne quando giocava a scopone: con un mazzo di carte si trasformava, diventava un altro. [...] Io suono tutti i giorni, almeno due ore. Un musicista è come un atleta: i muscoli e i tendini vanno tenuti sempre in movimento, non ci si può adagiare. Soltanto la domenica è sacra. Una volta era la giornata dedicata al calcio, oggi giocano quasi tutti i giorni, ma se c’è la Juve non si sgarra: stadio quando è possibile, altrimenti tv. A casa mia o, se sono fuori città per concerti, in un bar. [...] Avevo chiamato Juve anche il cane. Una femmina terrier: bianca, bella, una signora. È morta alcuni anni fa [...] Ho sempre preferito i cani, ma Medina — così si chiama il gatto che ha adesso — mi ha conquistato. Eravamo a Malta a casa di amici, la Juve giocava il ritorno di Champions a Barcellona (22/4/2003). Mi danno il gatto in braccio: gol di Nedved.... il padrone di casa insiste per metterci a tavola, io faccio resistenza, poi cedo. Mentre siamo in sala da pranzo pareggiano gli spagnoli. Torno di nuovo in salotto, mi rimettono in braccio il gatto: segna Zalayeta. Comincio a guardare l’animale con interesse nuovo, mi pare persino bello. Giorni dopo, siamo sempre a Malta in casa degli stessi amici, si gioca Juve-Brescia: il gatto mi salta in braccio: segna la Juve; me lo tolgono: pareggia il Brescia; me lo riprendo: gol di Del Piero. A quel punto non ho avuto dubbi: questo gatto viene a Milano con noi. [...] Abitavo a Roma, avevo un concerto a Venezia, sono andato a Torino per il derby, felice per la vittoria col gol di Tardelli (21 ottobre 1979: Torino-Juve 1-2) ho preso il treno e sono arrivato a Venezia mezz’ora prima del concerto. Il top però risale al gennaio ’73: il lunedì mattina ad Hannover erano fissate le prove di un concerto e la domenica si giocava Inter- Juve. Mi costruisco il pomeriggio perfetto: San Siro, aereo su Francoforte prenotato per le 19 ed è fatta. La prima parte va a meraviglia: la Juve vince 2-0 con gol di Altafini e Anastasi, mi fiondo a Linate e scopro che è chiuso per nebbia. Opzione2: vagone letto. Pieno, così ho viaggiato seduto in treno tutta notte. Ma ad Hannover sono arrivato in tempo: mezz’ora prima delle prove. Poi c’è la partita che mi è costata di più: quella dello scudetto 2002. Il 5 maggio ero a Tokyo: ho chiamato casa e mi sono fatto raccontare da Laura tutto il secondo tempo di Lazio-Inter e Udinese-Juve. Quella telefonata l’ho pagata una cifra... [...] Dovevo suonare a Napoli, alle 21. Ho chiesto di posticipare a fine partita. Era la finale di Atene, quella del gol di Magath (25 maggio ’83: Amburgo-Juve 1-0). Fortunatamente quando si suona un po’ passa, ma quella serata è stata tremenda per me. [...] Juve-Napoli del ’57. La Juve avrà avuto una sessantina di palle-gol, no, non sto inventando: erano proprio una sessantina, me le ricordo tutte e non ho più visto una partita così... Dicevo: la Juve creò una montagna di occasioni ma Bugatti, che aveva la febbre alta, parò anche l’imparabile. Il Napoli fece tre tiri in porta e furono tre gol: Vinicio, Novelli, Di Giacomo. Finì 3-1, l’1-1 provvisorio fu di Charles. Tremendo. Ero a Torino perché avevo vinto il Trofeo Primavera, concorso Rai per giovani musicisti: alla premiazione, in serata, arrivai mogio mogio. Chissà cosa avranno pensato» (“La Gazzetta dello Sport” 3/9/2003) • Già sposato con Resy, dalla violinista Laura Gorna ha avuto le gemelle Ines e Irene, nate il 25 agosto 2008.