Varie, 8 febbraio 2002
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ADAMS Tony Romford (Gran Bretagna) 10 ottobre 1966. Ex calciatore. Tutta la carriera nell’Arsenal • «[
ADAMS Tony Romford (Gran Bretagna) 10 ottobre 1966. Ex calciatore. Tutta la carriera nell’Arsenal • «[...] centrale difensivo, capitano dell’Arsenal e dell’Inghilterra per la quale giocò 66 volte [...] una volta scese in campo 23 punti in testa per la ferita che si era procurato nella notte rotolando lungo le scale del locale dove si era ubriacato, nel ”90 passò tre mesi in galera per guida in stato di ubriachezza. Ha raccontato la sua storia in un libro Addicted (dipendente, tossico, drogato) che fu un best seller nel ”98 in Inghilterra dove l’alcolismo tra i giocatori è diffuso, così come l’inevitabilità di ammetterlo. [...]» (Corrado Sannucci, ”la Repubblica” 21/11/2007) • «Un uomo grattacielo, naso da pugile, gambe da giraffa, orecchie come bistecche. I tifosi nemici per canzonarlo gli fanno il verso dell’asino, ma quel raglio da sempre gli dà forza (’Asino”, comunque, è il suo soprannome). Ha scritto la sua storia, in un libro splendido e terribile, un libro odissea, Fuori gioco, la mia vita con l’alcol (Baldini & Castoldi), senza ipocrisia, con dignità e coraggio. La storia del campione alcolista, del giocatore ubriaco e in galera, del gigante che rivelò ai compagni ”sono un bevitore cronico, ne voglio uscire, rispettatemi”, del padre fallito, del marito abbandonato, del rottame umano. Ma c’è sempre l’uomo dello specchio, a saperlo ascoltare. E l’uomo dello specchio non mente mai. L’uomo dello specchio compare a pagina 284 sotto forma di poesia. ”Se il mondo ti ripaga nella lotta per il successo e ti fa re per un giorno, vai e guardati allo specchio, e chiedi all’uomo che vedi il suo parere”. Per lui, non dev’essere stato un gran parere. Erano, ”a Dio piacendo, le ore 17 di venerdì 16 agosto 1996: il mio ultimo goccio di alcol”. Il libro è venuto dopo, e ce n’è voluto di fegato per dire tutto, per navigare dentro un decennio di sbronze. Il fegato di svelare che dopo la semifinale dell’Europeo ”96 contro i tedeschi, persa ai rigori, è stata tutta una bevuta cominciando negli spogliatoi (’A forza di lattine di Carling Black Label”) e proseguita sul pullman, in albergo, nella notte e il giorno dopo, nel deserto della mattina in ritiro, l’hotel vuoto e Tony con la sua pinta in mano. ”Bevevo per festeggiare i successi e per smaltire le delusioni, dunque bevevo sempre”. Una droga, un doping esistenziale per reggere il ruolo, per darsi forza: ”Il mio valore come persona era in ciò che facevo, non in ciò che ero” e in questa frase c’è tutto il dramma del campione immerso nella falsità, nel circo di plastica che pretende prestazioni, record, trionfi e in qualche modo bisogna tenersi su, e mai mostrarsi deboli, deboli mai. Tony racconta di quando rimbalzava da un pub all’altro e sapeva a memoria i turni dei tipografi, degli idraulici, dei muratori, di tutti quelli che riuscivano a fermarsi al secondo boccale e lui invece no. La moglie Jane si stava disintossicando dalla droga e Tony si sentiva superiore, ”invece ero più tossico di lei”. Tre figli quasi dimenticati, gli infortuni da superare col bisturi e la bottiglia, la vergogna, la fatica di nascondere questa vita sempre più barcollante. ”Ricordo le otto settimane nel carcere di Chelmsford per guida in stato di ubriachezza, con l’incidente a 120 all’ora senza neppure accorgermene, la rovinosa caduta dalle scale di un night che mi aveva lasciato una ferita di 29 punti in testa, un conto da 5.800 sterline in un night, la pipì a letto”. Tony racconta di quando prese una ragazza per una notte d’amore senza amore, le bottigliette del minibar a terra e solo un pensiero in testa, bere ancora, bere ancora. Poi le lacrime, la solitudine, una canzone (Black Coffee in Bed degli Squeeze) ascoltata a letto come in un delirio e ancora piangere e sudare fino a perdere litri, e con quell’espulsione era come se uscisse fuori la vita di prima, ”il passato che è come un paese straniero”. Da quel paese Tony Adams è scappato da uomo, non da super eroe, aiutato da un amico che si chiama Steve Jacobs e che già aveva guidato Paul Merson, compagno di Adams, fuori dall’incubo della droga e del bicchiere. ”Alla prima riunione degli Alcolisti Anonimi dissi ”mi chiamo Tony e sono un bevitore’, poi tutto è stato naturale”. Uscire non solo dall’alcol ma dall’ipocrisia: ”Non sono più il calciatore Tony Adams ma il signor Tony Adams che gioca a calcio, suona il piano, fa il padre e vive”. Ora non è più il tempo in cui si imbottiva di sacchetti della spesa per sudare marcio e perdere i chili ”da birra”, eppure lui non si sente un salvato in eterno: ”Nessun alcolista lo è mai, l’importante è non ricominciare perché per noi un bicchiere è troppo e cento non sono niente”. Gli arrivano moltissime lettere di persone che vogliono uscirne, risponde a tutti. La leggenda dello stopper bevitore è un viaggio di dolore e risalita, lui dice di sentirsi come il pilone di un ponte che non fa niente di straordinario, semplicemente sta lì e resiste. Ma c’è anche tanto sport sbagliato in questa vicenda, c’è il dovere di essere e l’angoscia di non poter essere, e allora si beve. Per non avere vinto abbastanza, o per avere vinto troppo si può anche prosciugare una bottiglia di grappa alla pesca, e nello stesso modo si può imparare a disegnare i personaggi di Walt Disney per i propri figli dal fondo di una cella, spalancata e richiusa proprio da quella bottiglia di grappa. Ma dal centro della sua difesa, adesso il vecchio Tony respinge» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 20/6/2001) • «Com’era arrivatofino a quel punto di non-ritorno? una storia lunga e difficile, che ha per fondale un’Inghilterra tra l’inizio dei Settanta e la seconda metà dei Novanta. Da bambino aveva rivelato una precoce inclinazione panico/depressiva: al ”calar della notte” - cioè alle 4 del pomeriggio - guardava fuori dalla finestra, sentendosi ”solo e vuoto”, colpito da ”un’angoscia indefinita” che gli faceva ”battere il cuore all’impazzata”. A scuola, più tardi, era stato uno studente ”debole e a disagio”: in soggezione verso gli insegnanti, timido con le ragazze e sfottuto dai compagni. Da adolescente - cioè già da giocatore in ascesa - era stato protagonista di tante bravate teppistiche (come la distruzione dei finestrini delle macchine parcheggiate), scoprendo appunto l’alcol come ansiolitico/anestetico delle sue difficoltà psicosociali. E nel pieno della giovinezza, a 24 anni - cioè ormai da nazionale affermato - aveva addirittura fatto l’esperienza del carcere: 9 mesi (poi ridotti per buona condotta) da scontare a Chelmsford per aver guidato in stato di ubriachezza e aver invaso con la macchina una proprietà privata. Qui ci si aspetterebbero pagine chiuse e disperate: invece, con le descrizioni impressionanti della cella (un buco con un secchio per pisciare) e dello spegnersi delle luci per la notte ci sono anche momenti di vitalismo felice (il caos dei 50 detenuti che si disputano il pallone) e contrappunti ironico-sarcastici (’il barbiere era un fan degli Spurs, così sono uscito dal carcere coi capelli lunghi”). Non incolpa nessuno di questo suo percorso problematico. Anzi, se si esclude qualche insofferenza sacrosanta per il cinismo dei media e dei tifosi, esprime il suo debito verso chi lo ha aiutato a contrastare il proprio istinto autodistruttivo. Verso i genitori, ”East Enders” della zona industriale di Stepney (una Pero londinese), il padre camionista e poi asfaltatore che ha interrotto la carriera calcistica per l’asportazione di un rene a 25 anni e che ha sempre incoraggiato il figlio. Verso l’ex moglie Jane, che anzi gli ha indicato la via del recupero risalendo lei stessa da una lunga tossicodipendenza. Verso i suoi allenatori, che lo hanno sempre compreso (il ”capelliano” George Graham) o addirittura sorretto con un dialogo profondo e con un’assistenza medico-scientifica (il ”sacchiano” Arsène Wenger). Verso i compagni e i colleghi ancora più sfortunati (l’incontro col dio Van Basten in un ristorante di Antibes letto come un’esortazione a risolvere l’infortunio alla caviglia). Verso gli amici fedeli, come gli stessi Merson e Jacobs o verso Ian Ridley, che lo ha supportato nella stesura del libro. Non solo. Questa luce piena di gratitudine senza retorica, morale e antimoralistica, rivela in lui un’intelligenza lucida e spietata, che gli fa vedere nell’alcolismo un processo biologico ”subdolo e inafferrabile”, nelle dinamiche necessarie per uscirne lo spostamento dal sentimento di umiliazione a quello di umiltà e dall’egoismo all’autostima (’L’ego è quando mi sento figo, l’autostima è quando sono contento di me stesso”). Soprattutto, questa intelligenza gli permette di capire che l’uomo preso per il culo dai compagni per aver pisciato a letto in ritiro e quello che ha ritrovato il rapporto coi propri figli e gioca nel parco con loro, non sono due individui separabili con l’accetta, perché il primo non è un criminale e il secondo deve ricostruire ogni giorno il proprio stato di grazia nella lotta con (per) l’esistenza» (Sandro Modeo, ”Corriere della Sera” 18/4/2001) • «Alla fine della carriera, quando tutto poteva finire molto peggio, si è dimostrato un uomo intelligente. ”Voglio tornare a studiare. Quando ero ragazzo pensavo solo al calcio, ora sono pronto per tornare a scuola. Dopo tutto quello che mi ha stimolato fisicamente ho bisogno di qualcosa che mi stimoli intellettualmente”. Inizierà all’ Università un corso di tre anni di scienza dello sport, ha respinto anche una serie di proposte, come quella del Watford, per iniziare subito la carriera di manager. Vuole prima una laurea. ”Un poco di preparazione ha bisogno di questo tempo”. […] stato precoce in tutto: nell’89 portava l’Arsenal allo scudetto, l’ anno dopo arrivava la prima condanna. […] La sua biografia è piena di episodi, dai giochi con un estintore in una pizzeria di Rumford (dove è nato) in compagnia di Parlour, ai venti tizi buttati giù per le scale in un night club prima di un match contro l’Ipswich in FA, al segno ”V” capovolto (un vaff...) mostrato ai tifosi del Tottenham. Ha avuto sempre l’istinto per scegliersi i compagni con i quali fare disastri. L’amicizia della vita è stata con Merson, che a sua volta era un generoso consumatore di cocaina. Li accomunava anche un comune odio verso Bergkamp, un carattere spocchioso di suo, ma che inorridiva agli eccessi dei suoi due compagni. […] I tifosi dell’Arsenal lo hanno definito generosamente l’erede di Bobby Moore: i suoi lati forti sono stati lo spirito di combattente, l’abilità nel gioco aereo e sui calci piazzati» (Corrado Sannucci, ”la Repubblica” 14/8/2002).