Varie, 8 febbraio 2002
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Afeltra Gaetano
• Amalfi (Salerno) 15 marzo 1915, Milano 9 ottobre 2005. Giornalista. Tessera n.10 dell’ordine dei giornalisti lombardi (Indro Montanelli aveva la numero otto). Esordi all’“Ambrosiano”, nel 1942 entrò al “Corriere della Sera” dov’è stato redattore, caporedattore e vicedirettore. Dal 1972 al 1980 è stato direttore de “Il Giorno”, il quotidiano dell’Eni. Memorialista di via Solferino e della Milano d’ante e dopoguerra, ha scritto libri come Corriere primo amore; Missiroli e i suoi tempi; Milano, amore mio; Casa in via Manzoni. Ama la Scala, il Savini, Peck, il risotto, lo champagne (“L’Espresso”25/1/2001) • «[...] Come professionista della carta stampata, ha rappresentato, per alcune generazioni di colleghi, un mito. O un proverbio. A renderlo tale hanno molto contribuito l’indole affabile e la spontaneità meridionale che aveva imparato a impiegare a fini rievocativi ed emotivi. Inesauribili erano le storie autobiografiche che Afeltra riversava nella conversazione, nei libri e negli articoli [...]. In principio, a metà degli anni Trenta, c’era stato “un grande viaggio - sono sue parole - che mi porta da Amalfi a Milano”. Lì l’aveva richiamato un suo fratello maggiore, Cesare, che era stato redattore del “Corriere della Sera” e ne era stato allontanato perché antifascista. Dapprima dietro la guida di Cesare, ma poi per lunghi decenni da solo (suo fratello morì precocemente nel 1940) Gaetano adottò Milano; e Milano adottò lui. Per la metropoli lombarda nutriva un sentimento che rasentava l’idolatria. [...] questo entusiasmo l’abbiamo visto erompere in un volume dal titolo Milano amore mio, edito da Rizzoli. Vi si trova la città della Scala e del Savini, delle “seicentomila segretarie”, delle vigili e bonarie portinaie. Il luogo che accolse e glorificò Arturo Toscanini e Raffaele Mattioli, Indro Montanelli ed Eugenio Montale. La Milano dove - indimenticabile, per Afeltra, era il libro di Giuseppe Marotta - “non fa freddo”. Dove le estate non sono roventi. La “New York d’Europa”: così volentieri la chiamava. La Milano, soprattutto, del “Corriere della Sera”, che diventò subito, per il ragazzo di Amalfi, una passione in forma di giornale. La prima testata che lo accolse fu un giornale della sera: “L’Ambrosiano”. In quella redazione fece le prime prove. Si firmava “Omicron”. Entrò in amicizia con intellettuali noti, cui commissionava (e spesso correggeva) gli articoli. Ma il suo traguardo, subito intuìto come tale, era il “Corriere”. Era solito riferire - e il candore dell’“io narrante” quasi ti costringeva a credergli - che, appena messo piede la prima volta a Milano, appena fuori della stazione, chinando l’orecchio verso il suolo gli parve di udire in movimento le rotative di via Solferino. Nelle parabole che distillava Gaetano, “corrierista” per destino e per antonomasia, c’era più fervore che nostalgia. Per lunghi decenni non era possibile camminare in via Manzoni - dove lui ha abitato a lungo in albergo, al Continental, ora scomparso - senza incontrarlo, stretto nella sua grisaglia grigia e disposto a parlarti dei “suoi tempi”, nelle stanze del grande quotidiano. Di quell’epoca conosceva tutti, maggiorenti e gregari. Ricordava tutto. Conservava tutto: telegrammi, lettere, bigliettini. Quando, dopo la lunga permanenza al “Corriere”, Afeltra nel ’72 andò a dirigere “Il Giorno” e vi rimase otto anni, i suoi amici capirono che per lui la fase professionalmente magica era passata. Non che, in quanto direttore, apparisse “sfiorito”, ma la sua memoria veniva nutrita da un altro ambiente. Ciò che egli chiamava “la reggia”, “l’abbazia”, “l’Alcazar della carta stampata”, aveva un domicilio preciso: via Solferino. L’aneddotica in cui si esibiva in proposito era straripante. Raccontava, per esempio, di quella volta che Dino Buzzati, mandato in un istante dal vicedirettore Afeltra a seguire un naufragio di bambini in gita su non so quale lago, telefona al suo affettuoso aguzzino per leggerglielo. Gaetano ascolta, finge di approvare, ma poi prorompe: “Buttalo via! Straccialo! Distruggilo!”. “Che cosa?”, si ode un balbettio nella cornetta. “Il tuo articolo”, è la risposta. Lo vuole improvvisato, quel reportage, recitato al telefono senza un appunto in mano, fremente di nevrosi professionale e di verità. Lo esige folle e trafelato, adatto a quella belva meravigliosa che è un giornale. Buzzati, deposta la cornetta, vuole cencedersi una breve pausa per smaltire il nervosismo. Ma non passa un minuto che una nuova telefonata lo trafigge. È ancora Afeltra: “Sono arrivate le mamme?”. Senza la scena madre (è il caso di dirlo) la recita a braccio dell’articolo sarebbe monca. Lì, nelle supreme stanze di via Solferino, dal romanziere Buzzati non ci si aspetta un pezzo di letteratura. Deve essere un pezzo di cuore. Con esortazioni e parole di questo tipo, pronunziate in preda a una sorta di estasi professionale, Afeltra ha “formato”, torturandoli, decine di giornalisti. Corriere primo amore s’intitola un suo volume uscito nel 1984 (intanto Afeltra era tornato al “Corriere” come “elzevirista”). Quattro anni più tardi, ne uscì un altro, Famosi a modo loro. Spesso i personaggi effigiati sembrano, a contemplarli oggi, “cavalieri d´altri tempi” (così d’altronde li connotava l’autore): si va da Pirandello a Renato Simoni, da Alcide De Gasperi a Donato Menichella. Ma gli sconfinamenti sono illusori. Il nucleo principale rimane quello: il “Corriere” con annessa Milano. È qui che le figure s’incrociano, s’abbracciano, si confondono, diventano “elzeviro”. [...] Da quando [...] sono morti sua madre e un suo fratello molto amato - noto monsignore amalfitano - Afeltra non era più tornato nel paese d’origine. Amalfi, diceva Montanelli, preferiva “riviverla nella magia del ricordo”. In fondo, tutto ciò che ha scritto negli ultimi tempi si colloca sull’asse Amalfi-Milano. Due mitografie diverse. Quella che concerne la “costiera” è affettuosa, e a tratti arcaica: fatta di repressione sessuale, di miraggi d’adolescenza appartenenti a un altro mondo (sono struggenti i ritratti delle ragazze straniere che d’estate frequentavano quelle spiagge), di tentazioni. Non per nulla il libro che [...] raccoglieva questi elzeviri “campani”, pubblicato da Longanesi, s’intitolava Mordi la mela, ragazzo. È una sorta di preistoria sentimentale di un giornalista che, comunque si voglia giudicarlo, non somigliava a nessun altro» (Nello Ajello, “la Repubblica” 10/10/2005) • «[...] Gaetanino senza virgolette per gli intimi, è stato qualcosa di più di un personaggio eccentrico e imprevedibile, un giornalista vivace e scattante, un grande direttore d’orchestre giornalistiche come l’ormai leggendario Corriere d’Informazione che egli seppe elevare al rango di quotidiano d’urto nazionale. Afeltra era un mito della carta stampata milanese, un erede spirituale e testimone quasi notarile degli splendori e dei misteri di quello che i vecchi corrieristi doc chiamavano “il Cremlino di via Solferino”. Per il giovane amalfitano Afeltra, come per altri meridionali di talento prensile e corsaro, Milano era stato il porto delle nebbie favolose, il Nord dei grigiori vellutati e avvolgenti, dove la promessa del miracolo sembrava annidarsi proprio nelle più segrete opacità cittadine. Fra Milano e Afeltra, col passare degli anni, col crescere dei successi e delle amicizie indissolubili, finì per stabilirsi un rapporto di simbiosi che, a un certo momento, divenne osmosi quasi biologica. Nessuno seppe mai dove fosse il domicilio civico dell’elegante e un poco enigmatico folletto Gaetanino. Nessuno se lo chiedeva più vedendolo spuntare d’improvviso dal grigio con impeccabili soprabiti grigi e con perfetti Borsalino, acquistati nel solito negozio d’angolo della Galleria, che davano alla sua testa rotonda, sempre fremente di curiosità, un tocco misto fra l’artista di successo e il grand commis. Tutti davano ormai per scontato che la sua dimora allargata comprendesse, in un colpo solo, i grandi alberghi di piazza Repubblica, la Scala, la Banca Commerciale di Mattioli e, ovviamente, l’intramontabile via Solferino. La nostalgia solferiniana, il mito del “Corsera”, non abbandonarono lo spirito e le passeggiate erratiche di Afeltra nemmeno quando salì alla direzione del “Giorno”. Si diceva che egli tornasse sovente ad aggirarsi intorno allo storico palazzotto editoriale dei Crespi da solo, di notte, col Borsalino calcato sugli occhi, dopo la cena al Santa Lucia con la moglie e la figlia che non incontrava mai di giorno. Una specie di poetico Raskolnikov che andava a fiutare l’aria dei giovanili “delitti” consumati in allegra complicità al fianco di Montanelli, Buzzati, Vergani, Piovene (scoop, progetti d’inchiesta, nottate al piombo di linotype, ribattute aurorali con la dirompente notizia dell’ultima ora). Quando Indro Montanelli nel 1974 abbandonò con una folta schiera di giornalisti e collaboratori il Corriere di Piero Ottone, Gaetanino restò per alcuni giorni allibito e silenzioso. Per lui quello scisma assumeva l’aspetto di un disastro nazionale. Quando finalmente si decise a prendere il telefono strillò per alcune volte nella cornetta: “Indre Indre Indre!”. Solitamente e meridionalmente storpiava in “e” l’ultima vocale delle parole. [...] “Indre”, continuò più sommessamente Afeltra, “ma ti rendi conto che Montanelli senza Corriere non è più Montanelli e che il Corriere senza Montanelli non è più Corriere?”. Montanelli, a quel tempo irritatissimo con Ottone e con Giulia Maria Crespi, gli rispose: “Il vero Corriere è per adesso qui, in piazza Cavour. Io e coloro che mi hanno seguito siamo garanti della continuità che ti sta a cuore. Ma in Italia, tu lo sai quanto me, tutto è possibile: è anche possibile che un giorno mi offrano la direzione del Corriere che io non sto abbandonando ma continuando su un’altra sponda. Del resto, pure tu, non stai facendo lo stesso sulla sponda del Giorno?”. La lunga profonda amicizia che univa Gaetanine e Indre ebbe la meglio sulle perplessità e le delusioni di Afeltra nei confronti di Montanelli. [...] non passava giorno che i due vecchi non si parlassero al telefono; spesso s’incontravano nelle loro passeggiate mattutine; non c’era problema, giornalistico, politico, perfino privato, concernente l’uno o l’altro, che non esaminassero o discutessero insieme. Quando divampò il giorno di fuoco della strage e del rapimento di Aldo Moro, altro stretto amico personale di Afeltra, si aggiunse alla tragedia un tocco di bizzarria gaetanesca che Montanelli non mancò di sottolineare con qualche sorriso costernato. “Pensate [...] che oggi, 16 marzo 1978, Gaetanino, che non ha mai volato in vita sua, ha preso per la prima volta un aereo per recarsi da Milano a Roma!”. Giunto a Roma, Afeltra piombò trafelato e nervosissimo nella redazione del “Giorno” in piazza Goldoni. Prese a correre su e giù fra i tavoli dei cronisti che, frastornati dalla congerie di notizie probabili e improbabili che venivano dalle agenzie e dalle televisioni, battevano furiosamente a macchina i “pezzi”. La terribile vicenda eccitava l’istinto del giornalista, ma frenava al tempo stesso il direttore consapevole e l’amico sofferente della vittima sequestrata dai brigatisti. Ogni tanto si avvicinava alla schiena di un cronista, si curvava sopra la sua testa sbirciando l’articolo, poi lo incitava e moderava insieme: “Sfume, sfume!”. Intendeva dire: controlla e sfuma tutto ciò che può risultare impreciso e fuorviante. La sua lunga esistenza, satura di memorie, era stata piena di bizzarrie, stravaganze, grandiosi colpi di scena giornalistici, impazienze e anche durezze direttoriali che però s’accompagnavano sempre nel finale al tratto umano e cordiale del gentiluomo. Tutti comunque pensavano che sapesse dirigere con estro ferreo i giornali, ma non sapesse scrivere per i giornali. Grande fu quindi la sorpresa suscitata dai ricordi, pieni di aneddoti e medaglioni piccanti, che egli negli ultimi anni aveva preso a pubblicare regolarmente sul suo “Corriere”. Li scriveva in una stanza che la proprietà del “Giorno”, finita la sua direzione, gli aveva lasciato in segno di riguardo all’ultimo piano del “Palazzo dei giornali” in piazza Cavour. Una volta qualcuno gli disse: “Come mai l’Eni, che gestisce il ‘Giorno’, ti ha dato una stanza da cui mandi articoli a un altro quotidiano?”. Rispose: “Perché ho avuto il buon gusto di accettare, come omaggio di gratitudine, soltanto una camera di lavoro senza chiedere un distributore di benzina”» (Enzo Bettiza, “La Stampa” 10/10/2005). «[...] che cosa rendeva unico Gaetano Afeltra. La lunga militanza giornalistica e la capacità di unire cronaca e cultura, o la padronanza di uno stile all’apparenza naïf che sapeva conquistare anche i palati più fini? Ciascuna di queste risposte, pur vere, non rende giustizia al personaggio che toccava punte di genio nel trasformare in notizia, in evento, fatto memorabile qualsiasi cosa toccasse o gli accadesse. Un protagonista del giornalismo, un organizzatore che sapeva dirigere e valorizzare le grandi penne, da Buzzati a Montanelli, da Vergani a Emanuelli, da Ronchey a Levi, ma anche un talento in proprio nell’arte del racconto, che usava al massimo grado la figura dell’iperbole e l’arte della drammatizzazione. Come lui stesso ha scritto sul Corriere in tanti elzeviri, il romanzo di Afeltra cominciò un giorno del 1937 quando arrivò ad Amalfi un telegramma del fratello Cesare, giornalista di talento che aveva dovuto lasciare il Corriere per il suo antifascismo ma era bene introdotto nella Milano dei Quasimodo, Vigorelli, Zavattini, Simoni, Bergeret. Nonostante il fratello lo sconsigliasse, il giovane Afeltra cominciò dunque la sua pratica all’Ambrosiano e alla fine del ’42 fu chiamato da Aldo Borelli al Corriere con la qualifica di impaginatore. Gaetanino, così lo chiamavano gli amici, aveva toccato il cielo con un dito: le grandi firme, gli ottoni e i marmi lucidi, la disciplina del Corriere, gli sembrava di essere stato ammesso al più esclusivo dei riti. E poi la metropoli, Milano di notte, i ristoranti, i locali: quando anni dopo raccontava questa emozione la paragonava a quella di Armstrong sulla luna. E naturalmente la sua era molto più forte. Ma il bello, e il brutto, dovevano ancora arrivare: il 25 luglio ’43 con la destituzione del “fascista galantuomo” Borelli e la nomina del “titano” Ettore Janni, l’8 settembre e l’avvento della Repubblica sociale, l’autosospensione dal Corriere con Montanelli, il ritorno — il 25 aprile del ’45 — al seguito dell’intransigente Mario Borsa. Ormai Afeltra non era più il ragazzo di redazione: mentre Borsa scriveva il fondo, lui chiedeva a Buzzati di descrivere il primo giorno della Milano liberata, disegnava la prima pagina, trattava con il Clnai. E gli uomini del Comitato di liberazione si fidavano di quel giovane che nei mesi della clandestinità aveva contribuito a delineare i futuri assetti editoriali: era stato lui, la mattina del 7 agosto ’44, nella Milano controllata dalle SS, ad accompagnare il direttore designato Borsa a un incontro con Ferruccio Parri nella chiesa dei santi Nereo e Achilleo. A quell’ambiente, alle amicizie e alla formazione politica di quegli anni Afeltra rimase sempre fedele. Nell’immediato dopoguerra era considerato uno dei professionisti più bravi sul mercato. Tanto che nel giro di un paio d’anni gli fu affidata la responsabilità di due giornali: prima il Corriere lombardo, nato da un’iniziativa degli Alleati, poi Milano Sera. In questi quotidiani fatti spesso con il contributo di intellettuali che avevano poca dimestichezza con la notizia, Afeltra si scoprì un vero innovatore: foto grandi, racconti brillanti e titolazione spregiudicata. Se i giornali più tradizionali davano in una notizia breve lo sgancio della prima bomba atomica, Afeltra titolava in caratteri cubitali: “È iniziata l’era atomica”. E nel ’46, all’indomani del referendum istituzionale del 2 giugno, con risultati ancora incerti, già il 3 giugno fiutando l’aria, e rischiando, si inventò “È già repubblica”. Era nato anche in Italia il giornalismo popolare e Afeltra ne era l’interprete. Dopo la parentesi al Lombardo e a Milano sera, Afeltra fu richiamato in via Solferino: dapprima come redattore capo, dal ’54 come responsabile del Corriere d’Informazione, dal ’61 con la qualifica di vicedirettore. Gli anni all’Informazione furono forse i più felici per Afeltra [...] Un giorno del ’64 mentre la prima pagina dell’Informazione era già pronta per la stampa, arrivò u’agenzia sulla morte di Alexander Fleming. Afeltra gelò con un’occhiata chi gli suggeriva di rimandare la notizia all’edizione successiva, si attaccò al telefono con Orio Vergani per avere un pezzo, fece liberare la testata della pagina e scrisse: “Lettore fermati! È morto Fleming, forse anche tu gli devi la vita”. Il giornale andò esaurito nel giro di pochi minuti. Di aneddoti come questo è piena la vita professionale di Afeltra. Dopo un dissidio con Alfio Russo, direttore subentrato alla lunga stagione di Mario Missiroli, Afeltra fu incaricato da Rizzoli di lavorare a un progetto che non vide mai la luce, “Oggi”, “il quotidiano di domani”, fece il consulente per la Domus e la Mondadori e nel ’72 fu chiamato alla direzione del “Giorno” in sostituzione di Italo Pietra. Afeltra fu direttore del quotidiano dell’Eni per otto anni e, forse scherzando, ma non troppo, definì quella stagione “il mio Vietnam”, non soltanto per la difficoltà a dirigere una redazione scalpitante in un periodo di contestazione, ma per la drammaticità del periodo che aveva visto la degenerazione della vita politica, la nascita del terrorismo, l’uccisione di Aldo Moro, uno dei pochi politici, con Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, cui Afeltra era legato da vera amicizia. A 65 anni Afeltra poteva considerare conclusa la sua militanza giornalistica. Ma fino ad allora aveva rivelato soltanto una parte del suo talento. Alberto Cavallari, il direttore del Corriere che per primo ospitò i suoi elzeviri e tutti i recensori dei numerosi libri di memoria, Indro Montanelli, Carlo Bo, Enzo Biagi, Giulio Nascimbeni, dovettero dichiarare con stupore che a quasi settant’anni era nato uno scrittore. Citiamo qui alcuni dei libri più noti: Corriere primo amore, Desiderare la donna d’altri, Famosi a modo loro, Com’era bello nascere nel lettone, I quaranta giorni che sconvolsero l’Italia, La spia che amò Ciano, Mordi la mela. Nei suoi libri raccontò il lato nascosto di inviati e scrittori, ma anche la grandezza di personaggi minori che fanno un giornale: il proto Croce, il segretario Marchiori, il correttore Vascotto, lo stenografo Fagiani. [...]» (Dino Messina, “Corriere della Sera” 10/10/2005) • «Via Bigli, via Manzoni, via Montenapoleone non sono più quelle di una volta. La moda ha scacciato botteghe e negozi, vie piene di vita ridotte solo ad essere belle vetrine. Milano era la città più bella, la città che faceva compagnia. Si viveva fino a notte tarda, si facevano le ore piccole. Ricordo le passeggiate notturne con Marotta, Gatto, Sereni, Quasimodo, Zavattini. Si andava all’Hagy in corso Vittorio Emanuele, dove ci sono oggi le Messaggerie, a mangiare la frittata con le cipolle. Oppure si andava al Donini a mangiare i panini con i wurtsel o con il tacchino fumante. Si parlava di letteratura e di donne […] Quando sentivo dire “quella lì vorrei portarmela a letto”, mi sembrava una cosa terribilmente audace e sconveniente. Per un ragazzo del Sud l’amore era solo sguardi e pensieri romantici. Noi andavamo ad Amalfi per vedere una ragazza. Quando la sera usciva con la mamma a passeggio con le amiche, potevamo solo seguirla incrociando quello sguardo. Milano per me era New York. Nel sud dicono “Milano, Milano! È come se fosse la Svizzera”. Ma non è così. Siamo vicini alla Svizzera, ma non è la Svizzera […] Io amavo il “Corriere” che mi sembrava più grande degli altri giornali. Ricordo quando mio padre lo stendeva sul tavolo per leggerlo. Da noi ad Amalfi arrivava il giorno dopo. Papà leggeva anche il “Giornale d’Italia” e “Il Mattino” […] Ricordo che ebbi una lettera del direttore del “Corriere”, allora era Aldo Borelli, che mi invitava a un incontro. Io intanto ero assunto all’“Ambrosiano”. Mi aspettava a mezzanotte. Ero molto emozionato: il sogno di tutta una vita forse stava per realizzarsi. Dissi alcune parole, ma il cuore mi batteva forte ed ero tutto sudato, al punto che dissi: “Direttore, non mi giudichi questa sera, sono molto emozionato nel trovarmi a parlare con lei”. Lui si alzò dalla poltrona, mi prese la mano in modo paterno e mi disse: “Non so se fra un mese, sei mesi o un anno, verrete a lavorare con noi”. Dieci giorni dopo ero assunto al “Corriere” […] Entrai come redattore impaginatore. Facevo tutto: i titoli, mettevo le fotografie, insomma avevo l’impressione di costruire il giornale. Mi sono divertito. Per me fare i titoli, tagliare i pezzi era come quelli che amano giocare a scacchi. Insomma, era un divertimento e una passione […] Credo che l’altra città dove sarei stato bene è Londra. Là vi sono certe regole, poi i colori, la buona educazione, le tradizioni che si mantengono… Ma il vero patrimonio di Milano è il lavoro. Sono le commesse, gli impiegati, quelli che “prendono i mezzi”. Talvolta tre mezzi per arrivare alle otto e mezza puntuali al lavoro […] Roma mi piace, ma la sento in contrapposizione a Milano per gusti, lavoro, abitudini, rispetto. […] Torino mi piace, mi piacciono le vie larghe, i caffè. Mi piacciono Paissa, Stratta e il caffè San Carlo. Mi piacciono le ore in cui tutti vanno a prendere il tè o l’aperitivo» (Alain Elkann, “La Stampa 26/9/1999).