Varie, 8 febbraio 2002
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Agassi Andre
• Las Vegas (Stati Uniti) 29 aprile 1970. Ex tennista. Quinto giocatore nella storia ad aver vinto almeno una volta tutti i tornei del grande Slam: Australian open (1995, 2000, 2001, 2003), Us Open (1994, 1999), Wimbledon (1992), Roland Garros (1999). Ex marito dell’attrice Brooke Shields, sposato con la tennista Steffi Graf • «Diverso. Nei gusti, nei modi e nell’abbigliamento. Sempre a caccia del meglio, del massimo, e quindi infelice nella società che dice sempre un comodo sì. Diverso, sin da bambino, quando palleggiava con Bjorn Borg e Jimmy Connors nel parcheggio dell’hotel di Las Vegas dove papà faceva il portiere, quando nei primi torneini chiamava “Mammina, mammina” quell’antipatico di un cinese, Michael Chang, carico di parenti e di spaghetti fatti in casa, quando faceva impazzire quel signorino di californiano, Pete Sampras, ancora a digiuno di smorzate e pallonetti, quando diventava il capobanda della Bollettieri Academy e sfondava subito nel professionismo al grido di “corri e tira”. A 18 anni era già numero 3 della classifica e prendeva in contropiede lo showbusiness di cui è figlio: “Il look è tutto”; a 21 aveva già buttato due finali del Roland Garros; a 22 stupiva il mondo vincendo Wimbledon e mandando in sollucchero la signora della canzone, Barbra Streisand (“È un’amica, solo un’amica, mi chiama piccolo zen”); a 25 aveva già esaurito tutte le emozioni dell’ottovolante della vita e dello sport, lanciava la moda del pancino depilato, terrorizzava il Tempio (Wimbledon) minacciando di violare la divisa bianca, se ne infischiava di premi e impegni, era straricco di sponsor e tifosi, era addirittura promosso a percentuale dalla Nike, che solo grazie a lui riusciva a vendere i pantaloncini jeans, poteva eccedere nelle opere di carità e nelle follie con l’aereo privato targato con la doppia A di Andre Agassi [...] Volava come voleva lui: su, su, fino al numero 1 del ranking (10 aprile 1995) e poi giù, giù, fino agli inferi del numero 141 (10 novembre 1997). E a 27 anni era perso, bruciato come una falena, dietro un miraggio chiamato amore: un viso perfetto, un nome famoso della celluloide, un fidanzamento foraggiato per sei mesi via fax, fino al matrimonio con Brooke Shields. Diverso? Bjorn Borg aveva smesso già a 25 anni e a 28 Boris Becker aveva concluso la collezione di grandi trofei: il tam-tam degli spogliatoi suonò la fine del punk di Las Vegas, che non rimpiangeva nulla: “Tranne i capelli”. E che tagliava corto: “Quando spegni l’interruttore è facile, il difficile è riaccenderlo”. Ma faceva una rivelazione che suonava come una promessa: “Ho sempre cercato di bilanciare la mia vita fra lo sport e il resto. Ogni qual volta non c’ero con la testa sul tennis è stato perché pensavo ad altro”. Doveva risolvere prima il problema Brooke: “La mia migliore amica”. Perché diventasse una motivazione infallibile: “No, non era colpa sua. Ma so che un uomo nella vita deve avere un obiettivo, un solo grande obiettivo. E io ho capito che quel che voglio veramente è giocare a tennis, e vincere, a livello più alto, e voglio provarci, fino in fondo”. Ecco, adesso era pronto a dimostrare che lui, solo lui, poteva rispolverare la favola di Rod Laver, quello che aveva vinto il secondo Grande Slam a 31 anni. Diverso. Col suo amico Gil, il gigante con la faccia butterata e il cuore tenero, ha scoperto l’allenamento, quello duro, e ha dissotterrato l’ascia di guerra della dedizione e della fede; con lo stratega del “gioco sporco” Brad Gilbert ha imparato finalmente la tattica biurando definitivamente il vecchio maestro Nick Bollettieri. Così ha ritrovato se stesso. Prima scoperta: “Le gambe, con le mie gambe posso applicare la vecchia regola del tennis: sono loro che ti portano sulla palla. E posso giocarmi 5 set come se fossero 3, sapendo di avere sempre benzina, e quindi lucidità, per mettere a segno i miei colpi”. Seconda scoperta: “Nella vita è importante controllare le cose che puoi controllare e non preoccuparti del resto. Tipo gli ace che ti fa l’avversario. Poi quelli passano e tu sei ancora lì, pronto ad afferrare l’occasione”. Vero per tutti tranne che per Sampras, il menico di sempre, l’unico che s’è opposto all’uragano Agassi, il vendicatore del tennis, come Laver dopo il blocco del professionismo. Diverso. Diciassette mesi dopo quell’orrendo n.141 in classifica, Andre ha preso una rincorsa fenomenale, ha sfatato il tabu sulla terra rossa del Roland Garros, è tornato in finale sull’erba di Wimbledon (sette anni dopo), ha riconquistato il cemento di Flushing Meadow (5 anni dopo), ha rivinto sulla gomma dura di Melbourne (ancora cinque anni dopo) nel primo slam del 2000. Bilancio: 27 successi e una sola sconfitta nei tornei dell’immortalità tennistica. Di più: strada facendo, il 5 luglio 1999 s’è ripreso il numero 1 nel mondo e, dopo sei anni di strapotere, ha tolto a Sampras lo scettro di fine stagione» (Vincenzo Martucci, “Sportweek” n.4/2000). «Meno conosciuta è la sua attività benefica, che merita di esser resa nota, anche e soprattutto perché lui preferisce non parlarne. I lettori, soprattutto americani, conoscono di lui la grande festa di Las Vegas, chiamata Grand Slam for Children (bambini), una riunione mondana nella quale si esibiscono star quali Elton John, Robin Williams, Dennis Miller, Martina Mc Bride. Un ballo in cui un tavolo per dieci viene venduto a 75.000 dollari, e che accoglie sino a duemila partecipanti. Ha messo questi soldi insieme a due milioni di dollari di tasca sua, a un milione e seicentomila di un’organizzazione statale che costruisce per i poveri, a seicentomila dollari dello Stato del Nevada. Ne è nato un immobile che ospita duecento bambini, in grande maggioranza (88%) neri. Venticinque ogni classe, dai nove ai dodici anni. “Vorremmo – afferma insolitamente timido – crescere di anno in anno, sino ad arrivare ai diciottenni. Per organizzare poi il passaggio a un college dovremmo costruire un altro edificio, e magari un campus”. Al di là di questi dati di fatto, mi pare che l’aspetto più interessante consista nella meritocrazia del progetto. Per rimanere nella Fondazione, bisogna ottenere un voto medio del 3,2, che corrisponde al nostro 7-8. “Ci vogliono un sacco di soldi, ogni bambino costa 7.200 dollari, sopra la media nazionale”, afferma Andre. Né dimentica di accennare all’iniziativa complementare, lo Andre Agassi Boys and Girls Club. Sui suoi campi sportivi si riuniscono 2800 bambini, tra i sei e i diciotto anni, strappati alle strade, e a povere mete. I più svelti formano una sorta di nazionale, il Team Agassi. “Ci vado a giocare – raccontava – e un bel giorno un ragazzino di undici anni, a nome Stan, mi passa a rete quasi fosse Sampras. Ho battuto la racchetta per terra, e mi aspettavo una risata, ma son rimasto allibito, per il silenzio generale. C’è una punizione, mi hanno informato, per chi sbatte via la racchetta. Ho dovuto farmi venti flessioni”» (Gianni Clerici, “la Repubblica” 6/9/2002). «[...] Chi mi conosce bene sa che non penso in termini di vittorie. Quello che mi attrae è la sfida continua. Anche quando ero numero uno del mondo non andavo mai ad un torneo con l’idea di vincerlo. Non ho dato mai troppa importanza al punto di arrivo, nella mia vita. Il tennis per me è stato piuttosto un viaggio da costruire giorno dopo giorno [...] Mio padre è stato sempre un grande lavoratore. Si preoccupava ogni giorno della sua famiglia, del lavoro. Mi ha trasmesso la sua etica del lavoro. Quando si trovò con un po’ di risparmi e decise che ci saremmo trasferiti in una casa più grande, l’unica cosa che gli importava era il giardino. Andava sul retro della casa e lo misurava, per capire se poteva contenere un campo da tennis. E la prima che abbiamo trovato con quel requisito è diventata poi la nostra casa per quindici anni [...] dopo aver vinto Parigi, nel 1999, ho capito che era stata una scelta giusta, che non avrei più avuto dubbi o rimpianti. Sentii che la pressione si allentava, e che tutto quello che sarebbe arrivato dopo sarebbe stato un di più. E avevo 29 anni [...]» (Stefano Semeraro, “La Stampa” 3/5/2005).