Varie, 8 febbraio 2002
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Agnelli Gianni
• Torino 12 marzo 1921, Torino 24 gennaio 2003. Magnate. Laureato in Giurisprudenza nel 1943, partecipò alla Seconda Guerra mondiale come ufficiale di Cavalleria prima sul fronte russo, poi con il raggruppamento corazzato Lodi in Tunisia meritandosi la Croce di Guerra al Valor Militare , e infine nella Divisione “Legnano” del Corpo Italiano di Liberazione. Nel 1943, subito dopo la laurea, entrò in Fiat come vicepresidente, carica alla quale affiancò, dal 1963, anche quella di amministratore delegato. Dal 1966 al 1996 è stato presidente del gruppo. Senatore a vita dal giugno 1991, è stato sindaco di Villar Perosa dal 1945 al 1980 e presidente della Confindustria dal 1974 al 1976. Nel maggio del 2000 fu insignito della Legion d’onore della Repubblica francese (“La Stampa” 10/3/2001). «Non ha mai autorizzato biografie per sottrarsi ai rischi delle compiacenze agiografiche o forse per una presunzione di immortalità che quasi sempre contagia i potenti. Ma su di lui esiste una pubblicistica che basterebbe a riempire parecchi volumi. […] È stato a suo modo un re. È passato nella seconda metà del Novecento, cancellando il labile ricordo del padre Edoardo e conquistando, in una maturità affollata di nipoti, un’aura patriarcale che fa pensare a quanto scriveva Goethe nelle Affinità elettive: “Anche nelle grandi e ricche famiglie, che devono molto ai loro antenati, si suole ricordare di più il nonno che non il padre”. Nel caso degli Agnelli, un nonno fondatore dell’impero di Mirafiori e un nipote, diventato nonno, che lo ha consolidato e fatto grande. Ci sono come due epoche ben distinte nella vita di Agnelli, tra loro divise dalla nomina a presidente della Fiat nella primavera del 1966. La prima ha inizio il 12 marzo 1921 data di nascita dell’Avvocato in una Torino nella quale gli operai occupano gli stabilimenti della Michelin e la Fiat si appresta a dimezzare i dipendenti (sono appena 13 mila) nel settore automobilistico. Tra questa data e l’assunzione del comando Fiat intercorrono esattamente quarantacinque anni con dentro una fanciullezza e un’adolescenza all’ombra del grande nonno e una giovinezza che si prolunga fino alla maturità all’insegna di una vita che prelude a quello stile del “principe fiorentino” che gli attribuirà più tardi “Time”. Il “bel ragazzo” che vive con le sorelle e i fratelli nella casa di Corso Oporto (oggi corso Matteotti) a Torino e nella residenza di campagna di Villar Perosa mostra precocemente di avere i numeri per diventare il futuro capo della Fiat. E anche quando, poco prima di morire nel dicembre del ’45, il nonno gli consiglia di “girare il mondo, far conoscenze utili, divertirsi un poco” egli sa che al momento opportuno il suo posto è lì, alla guida dell’azienda di famiglia. Nella scia del fondatore della Fiat, più di quanto non abbia fatto il padre Edoardo. Gli studi, la laurea in giurisprudenza, la guerra al seguito degli alleati americani sono un prologo al patto non scritto con Vittorio Valletta che governerà durante l’interregno ventennale dal ’46 al ’66. Poi la parentesi dorata durante la quale, grazie al suo charme e ai suoi mezzi finanziari, sarà stella di prima grandezza nel jet set internazionale, nelle notti della Costa Azzurra e in quel vorticoso mondo frequentato dall’Aga Kan, Alfonso De Portago, Porfirio Rubirosa, Baby Pignatari, Ranieri di Monaco, Errol Flynn e poi Linda Christian, Rita Hayworth, Lauren Bacall, l’indossatrice Bettina e tante altre fanciulle incapaci di resistere al fascino che “Le Nouvel Observateur” ha individuato nel “suo volto energico e bello, dalla pelle spessa, segnata in tutte le direzioni da rughe di cuoio, bucata dal blu dello sguardo”. L’incidente di Cap Roux nel 1952, che gli costerà una menomazione permanente della gamba destra, il matrimonio con Marella Caracciolo di Castagneto, elegante e bella discendente da nobile ceppo partenopeo, le fugaci presenze nella tribuna del vecchio Stadio Comunale di Torino a vedere la Juventus, una vicepresidenza della Fiat che è quasi una carica onoraria: l’immagine che se ne ricava non è ancora quella del futuro condottiero dell’impresa di famiglia. Scrisse di lui L’“Unità”: “Agnelli ignora il brivido mattutino di alzarsi alle sei come faceva il nonno e come fanno molti suoi operai”. Non è vero. Ancor prima di acquietarsi nella maturità della presidenza Fiat, l’Avvocato ha sempre trovato naturale la levataccia, spesso accompagnata da telefonate ad amici e collaboratori. Negli anni Cinquanta, mentre il Professore, come veniva da sempre chiamato Valletta, pilota la Fiat vedendosela con i democristiani al potere e i comunisti all’opposizione, creando e distruggendo sindacati, minacciando e blandendo, Gianni Agnelli - il nome non è stato ancora trasformato in Giovanni dall’autorevolezza della presidenza - se ne sta lontano, nessuno a Torino deve sapere dove e perchè. Dicono che Valletta abbia fatto di tutto per tenere il “bel cit” lontano dalla vita aziendale. Ma già nella prima metà degli anni Sessanta lo scenario italiano comincia a cambiare. Il contratto di lavoro del 1962 segna una svolta, mentre il tentativo di Tambroni di mettere in piedi un governo di destra muore nelle piazze di Genova e di Torino. Nella primavera del 1962 in un’intervista a “La Stampa” Valletta dichiara: “Il governo di centro sinistra è un frutto dello sviluppo dei tempi. Non si può e non si deve tornare indietro”. Andare avanti significa però passare la mano ad Agnelli ed è quanto avviene nel 1966. La sera del 29 aprile di quell’anno l’Avvocato incontra nel suo ufficio Valletta al quale dice: “L’azienda è cambiata, continua a cambiare, perciò necessita di una nuova organizzazione, un decentramento delle responsabilità, nuovi orientamenti”. Il Professore ascolta in silenzio e poi chiede: “E chi dovrebbe fare tutto questo?”. “Penso che spetti a me” replica l’Avvocato” che il giorno dopo viene nominato terzo presidente della Fiat. Da questo momento in Fiat governa nuovamente un Agnelli. L’interregno è finito. Il nuovo presidente deve però scontrarsi con la vecchia guardia vallettiana che sopravvive al Professore e che sarà presto travolta dall’autunno caldo. Agnelli intuisce che è il momento di imporsi e lo fa con decisione e con una capacità che qualche anno prima sarebbe stato difficile immaginare. Con Agnelli alla presidenza la Fiat cambia marcia. L’Avvocato, come molti potenti, non ama perdere. Perciò la Fiat che egli ha in mente è un’azienda meno provinciale e proiettata verso alleanze che non sempre saranno possibili (vedi Ford) e non sempre saranno semplici (vedi Gheddafi). Richiama dalla Francia il fratello Umberto e si circonda di collaboratori, alcuni dei quali arrivano da fuori. Per i sopravvissuti del Vallettismo è un’eresia, anche perché saltano certi steccati ideologici che in passato hanno separato buoni e cattivi. In Corso Marconi, consigliere del Principe, approda un intellettuale come Paolo Volponi anche se la sua permanenza si rivelerà di breve durata. Il tempo necessario comunque perchè l’autore di Memoriale conosca e descriva l’Avvocato come un signore che “vuole solo buone maniere, buone notizie e divertirsi; ascolta, capisce, rimuove, sorride e parte dopo dieci minuti per qualsiasi altro posto nel mondo”. Agnelli entra nella realtà italiana e non soltanto per quel suo impegno nel mondo imprenditoriale che gli vale una presunta compartecipazione al famoso documento Pirelli e più tardi l’elezione a presidente della Confindustria. Diventa persino più torinese lui che ha dichiarato una volta di trascorrere “qualche mese dell’anno in questa città e molto tempo fuori”. Non è più un tabù per i giornali. Il matrimonio, i figli Edoardo e Margherita, Villa Frescot in Strada San Vito sulla collina torinese, la barca battente bandiera italiana nei porti del Mediterraneo, il jet personale, l’elicottero che fa la spola tra la Collina e l’aeroporto di Caselle, il vezzo della cravatta sul pullover e dell’orologio sul polsino della camicia: tutto questo fa parte della riscoperta immagine del numero uno della Fiat. Un uomo che sembra essere diventato improvvisamente italiano pur continuando a dare confidenzialmente del tu a Giscard d’Estaing, Henry Ford, Ted Kennedy, Breszinszki, Kissinger. Non ha ancora preso a frequentare la borghesia torinese che patisce un po’ questa specie di ostracismo. Lo farà più avanti negli anni. La tentazione del potere, anche quello che non deriva dall’appartenenza alla famiglia di Villar Perosa, lo contagia. In un’intervista a “Repubblica” dichiara: “Nella costruzione di un gruppo come il nostro ci sono tre tempi: il tempo della forza, il tempo del privilegio, il tempo della vanità. Per me conta il primo. Voglio che gli altri due non esistano e poi basta uno per generazione...”. Si misura col potere fuori da Corso Marconi nel 1974. In quell’anno diventa presidente della Confindustria. È fermamente convinto della necessità di cambiare quella “istituzione” padronale ferma sui modelli dei Costa e dei Lombardi. L’accordo sulla contingenza, raggiunto con Luciano Lama, non scuote questo vecchio mondo, segna un cambiamento, non è gran cosa ma nessuno glielo rimprovererà. Sul finire dello stesso anno chiama in Fiat Cesare Romiti. Le cose non vanno bene, il bilancio è pessimo, c’è il rischio - e lui lo ammette - di non riuscire a pagare gli stipendi. Ci vuole un uomo che metta ordine nei conti. Non è facile. Nella gestione dell’Avvocato che rientra dalla parentesi confindustriale si colgono segni di incertezza. La nuova Fiat stenta a decollare mentre va verso anni burrascosi. Nel primavera del 1976 si parla di un’irruzione di Agnelli nella politica. Lo si vuole candidato alle politiche nelle file del Pri forse perchè da sempre è vicino a Ugo La Malfa. “Il mio cuore batte repubblicano” confessa. Ma si sa che è pronto a dare una mano anche ai liberali. Candidato finisce il fratello Umberto, ma come indipendente nelle file della Dc che lo confina in un collegio romano, lontanissimo dalle valli piemontesi dove avrebbe riscosso ben altro successo e dove invece la spunta il ministro Donat-Cattin. L’Avvocato, dicono, abbia disapprovato la scelta di Umberto che peraltro si rivelerà perdente. Ma in quel 1976 ha altro cui pensare in Fiat dove la situazione continua a essere preoccupante. In estate matura il divorzio dal giovane Carlo De Benedetti che è entrato in Fiat da meno di un anno ma si è scontrato con Romiti e in settembre lascia clamorosamente Corso Marconi. L’Avvocato tenterà di impedire la rottura ma senza successo. In autunno, assieme a Gian Luigi Gabetti, prepara l’ingresso di Gheddafi nel capitale Fiat. Lo annuncia in dicembre destando non poco scalpore. La convivenza col Rais si rivelerà piuttosto delicata. Un giorno il leader libico gli chiede la testa di Arrigo Levi, direttore della “Stampa”, colpevole di essere ebreo. Agnelli dirà no. Negli anni Ottanta saranno gli americani a mettere in discussione questa imbarazzante presenza araba nel capitale di un gruppo che pretende di entrare nel cuore degli affari occidentali (Scudo stellare). Le finanze Fiat sono state risanate e Agnelli si libera del socio Gheddafi. Ai funerali delle vittime del terrorismo, fenomeno al quale la Fiat pagherà un tributo di sangue, il volto dell’Avvocato è quello di un uomo fortemente preoccupato che però non dispera della vittoria. La sua linea è quella della fermezza. La stessa che, in una situazione diversa, adotta sul finire degli anni Settanta quando decide di chiudere la partita con un sindacato riottoso, massimalista e fuori dal tempo. “Vogliamo lavorare” annuncia ai giornali. E questa affermazione suona come una dichiarazione di guerra. Di una guerra che si concluderà dopo la vertenza dei trentacinque giorni, nell’autunno dell’80, con la vittoria della Fiat. Il decennio che segue è sicuramente il periodo più significativo della presidenza Agnelli. Adesso che, con Romiti, ha ristabilito l’ordine in azienda può dedicarsi al gioco delle grandi alleanze, meglio se internazionali. Cosa del tutto normale per un uomo che introduce spesso gli argomenti con la locuzione “Mi hanno detto alcuni amici americani...” e che, al mattino, oltre ai tre principali quotidiani nazionali (“Stampa”, “Repubblica”, “Corriere della Sera”) legge il “Financial Times”, il “Wall Street Journal”, “Le Monde”. Manca il bersaglio con i suoi amici della Ford e se ne addolora anche perchè quell’intesa non soltanto lo avrebbe avvicinato all’America ma gli avrebbe risolto forse anche qualche problema di assestamento del gruppo in vista della sua successione. Non sbaglia invece in occasione dell’Alfa Romeo che conquista proprio a spese della Ford. Con la Lancia, acquistata per cento lire simboliche appena tre anni dopo la sua nomina a presidente, e con l’annessione dell’Alfa adesso è il padrone assoluto dell’industria automobilistica italiana. Comincia a pensare al momento di lasciare il comando. Quando suo fratello Umberto compie i cinquant’anni, la sera del 3 ottobre 1984, in una festa di famiglia lo “incorona” ufficialmente suo successore. Le cose andranno diversamente. Per lui sembra esserci ormai un tramonto dorato tra i nipoti, dopo aver imitato il nonno anche in quella medaglietta di senatore a vita che a lui viene riconosciuta oltre i Settanta. Nella maturità accentua il gusto per la battuta, a volte amabile in qualche caso feroce. Sovente l’azzecca con la complicità dei giornali che l’amplificano. […] Nel 1990 dichiara: “La festa è finita”. Si riferisce ai segnali di crisi che presto metteranno a dura prova l´industria e la Fiat. Poi però sfuma e con un’altra battuta pretende di far credere che “si tratta soltanto di un mal di testa”. Non è così e lui lo sa. Tangentopoli soffia anche sul palazzo di Corso Marconi e l’Avvocato patisce questo coinvolgimento che lo costringe sulla difensiva in un momento peraltro delicato per il gruppo. Adesso pensa alla successione come non lo ha mai fatto. Il misterioso incidente dell’82 sulle nevi di St. Moritz e il successivo intervento al cuore hanno lasciato qualche traccia sulla sua salute e ora pesano su un uomo che ha superato i settant’anni e dichiara di volersi dedicare ai nipoti. Con l’assestamento dell’autunno 1990 ha predisposto un team di uomini al comando di Romiti che dovrebbe uscire assieme a lui nel 1994. Ma la situazione finanziaria dell’azienda sulla quale pesa la crisi dell’auto impone alla Fiat di cercare ossigeno fuori. La candidatura di Umberto è ancora buona, ma quando la Fiat programma il maxiaumento di capitale i sottoscrittori (Mediobanca, Alcatel, Deutsche Bank e Generali) chiedono ad Agnelli e a Romiti di restare fino al 1996. Una “prorogatio” improvvisa, a sorpresa, qualcuno insinua orchestrata da Romiti e Mediobanca. Quel che è certo è che il trentennio dell’Avvocato è chiuso. La successione scatta puntuale al suo settantacinquesimo compleanno. Lo sostituirà Romiti che poi a sua volta lascerà il comando a Paolo Fresco. L’Avvocato sembra sempre più intenzionato a ritagliarsi il ruolo di patriarca della Famiglia e di nonno dei figli di Margherita. Nel 1996 apre la strada al nipote Giovanni Alberto figlio di Umberto. È lui l’erede col quale è convinto di potersi assicurare la continuità della famiglia alla guida della Fiat. Ma il destino gli volta le spalle. Il nipote Giovannino muore stroncato da una malattia rarissima nel dicembre del ’99, si apre una nuova crisi di successione che riporta l´Avvocato ormai quasi ottuagenario sulla scena. Più che in passato sembra essere lui il punto di riferimento per la Famiglia. E anche per il gruppo che da “pensionato” segue con un’assiduità difficile da immaginare in un uomo della sua età. Le grandi decisioni si prendono nel suo ufficio al quarto piano del Lingotto dove lui si reca quasi tutte le mattine come ai tempi in cui era presidente effettivo. […] Poi la malattia e il distacco che è solo fisico perché anche negli ultimi mesi è il punto di riferimento per la famiglia e per l’azienda» (Salvatore Tropea, “la Repubblica” 25/1/2003). «Suscita negli italiani un sentimento molto simile a quello con cui gli inglesi considerano la regina Elisabetta. Non è soltanto un ricco e abile industriale, proprietario della maggiore azienda italiana. È un valore nazionale. In un libro apparso qualche anno fa l’albero genealogico della famiglia evoca intenzionalmente quello di una stirpe principesca. Il capostipite è Edoardo I, nato nel 1831 e morto nel 1871, ma il fondatore del Granducato è Giovanni I, ufficiale di cavalleria, nato nel 1866 e morto nel 1945. Discendono da lui Edoardo II, tragicamente morto a bordo di un idrovolante nel 1935, e soprattutto i suoi figli: Giovanni II, meglio noto come Gianni, i duchi e le duchesse Susanna, Maria Sole, Cristiana, Giorgio, Umberto. [...] Prescelto dal nonno ancora prima della morte del padre, fu iniziato al trono sin dall’adolescenza. Il premio per la licenza liceale fu un viaggio negli Stati Uniti, a bordo del Rex, durante il quale visitò New York, Chicago, il Mississipi, le grandi industrie automobilistiche di Detroit e imparò l’inglese. Tornato in Italia si iscrisse a legge, ma fu chiamato alle armi, divenne ufficiale di cavalleria e partì per la Russia con il corpo di spedizione italiano nell’inverno del 1941. Si racconta che il nonno, preoccupato per la sua vita e per le sorti dell’azienda, abbia chiesto a un generale amico di restituire il nipote alla famiglia. Ma lui, dopo il ritorno in Italia, gli scappò di mano e corse in Africa dove venne ferito in combattimento da due schegge, a una gamba e a un braccio. [...] Per venti anni, fino al 1966, sedette al consiglio d’amministrazione, presiedette un’azienda (la Riv) che il nonno gli aveva lasciato in eredità, viaggiò per il mondo, si sposò e finì spesso nelle cronache mondane della stampa europea e americana. Molti pensarono che il giovane “avvocato” fosse soprattutto un simpatico playboy e che l’azienda [...] sarebbe stata diretta da un consiglio degli anziani composto dai manager del gruppo. Ma lui aveva altri programmi [...] Divenne a 45 anni il capo di un’impresa che produceva 1 milione e 151.000 automobili e occupava il quinto posto fra le industrie automobilistiche mondiali [...] Nel 1969 il clima sociale italiano divenne infuocato. Gli scioperi dell’autunno caldo (20 milioni di ore alla Fiat nel corso dell’anno) colsero l’azienda mentra stava espandendo le sue attività ed ebbero effetti disastrosi. Cominciò un decennio orribile [...] Fu allora che cambiò ruolo. Anziché essere un re governante divenne un re costituzionale. Dovette venire a patti con i sindacati, accettare i consigli della Mediobanca, permettere che una parte del capitale finisse nelle mani della finanza libica, delegare la direzione del gruppo a un manager di talento, Cesare Romiti. Il ruolo, alla fine, dovette piacergli. Mentre Romiti governava l’azienda con un pugno di ferro e metteva fine alle turbolenze sociali degli anni Settanta, lui poteva permettersi di recitare la parte del conciliatore. Divenne presidente della Confindustria (1974), elargì ai sindacati il punto di contingenza, divenne editore del maggiore quotidiano italiano, fu nominato senatore a vita [...] In qualche caso dette persino l’impressione di pensare che la sinistra, in un paese come l’Italia, fosse meglio della destra moderata. Ma quando prese tali posizioni lo fece con una sorta di supremo snobismo paternalista. Fu insomma una via di mezzo tra Giovanni Giolitti e Vittorio Emanuele III negli anni che precedettero la Grande guerra. L’affascinante playboy si trasformò così in un anziano signore, altrettanto affascinante, ma saggio e ironico. Divenne un personaggio ad alto gradimento e finì per riempire il vuoto di leadership creato nel Paese dall’instabilità della vita politica nazionale» (Sergio Romano, “Panorama” 15/3/2001). «Per la gente è semplicemente “l’Avvocato”; la formula delle segretarie e dei dirigenti della Fiat è stata trasmessa alla nazione, che l’ha accolta con lo stesso rispetto. Hanno fatto un’inchiesta: novantanove cittadini su cento sanno chi è il papa, tutti conoscono “Gianni”. Nel 1975 il suo viso, disegnato dalle rughe e perennemente abbronzato, è comparso undici volte sulle copertine dei settimanali. Piace. Quando una volta fu invitato alla tv per un dibattito con un ministro, che pacatamente ridicolizzò, le impiegate abbandonarono in massa gli uffici: una passerella. Spiega uno psicologo: “È diventato un simbolo: il maschio oggetto per eccellenza. Dai giornali femminili è richiesto soprattutto in costume da bagno o in mutande. Se è possibile anche senza” [...] “Quando uno è miliardario” diceva Fortebraccio “gli manca sempre pochissimo per essere un genio”. Ha detto: “I ricchi non sanno quanto i poveri sono poveri, ma i poveri non sanno quanto i ricchi lavorano”» (Enzo Biagi, Dizionario del Novecento, Rai Eri/Rcs 2001). «Non credo di essere considerato un reazionario. Non credo nemmeno di essere considerato un padrone prevaricatore. La mia conoscenza della vita operaia viene soprattutto dall’essere stato qualche decina d’anni sindaco di Villar Perosa, quindi conosco la condizione operaia, conosco le case in cui vivono, conosco gli orari che fanno, e credo che loro sanno quanto possa essere difficile il mestiere che faccio io, questo è tutto. Direi che i rapporti non so se sono buoni, lo spero» (Nicola Caracciolo, intervista andata in onda su Rai3 il 30 dicembre 1999, “Il Venerdì” 24/12/1999). «Il momento più difficile che ho vissuto furono gli anni 70, soprattutto per la crisi petrolifera. Improvvisamente ci fu la moltiplicazione del prezzo del petrolio, che buttò in crisi tutto il mondo capitalista e industriale. In quel momento io ho avuto veramente momenti difficili e ho douto chiamare come partner in Fiat il mondo libico. Non bisogna dimenticare che in quel momento la Krupp aveva preso come socio l’Iran, il Kuwait era entrato in Daimler Benz [...] Avevano molto denaro e noi ne avevamo bisogno» (Nicola Caracciolo, intervista andata in onda su Rai3 il 30 dicembre 1999, “l’Espresso” 27/12/1999). «Lo stile Avvocato. Quanti tic, quante mode, quanti vezzi, capricci e manie sono stati lanciati da Gianni Agnelli per essere poi riprodotti nel peggiore dei modi. Siderale è sempre stata la distanza fra lui, adulato come un Apollo etrusco (“Mettigli un elmo in testa, mettilo a cavallo: ha la faccia del re”, disse Fellini) e la massa, anche se danarosa, dei comuni mortali. Tutti in fila a copiare in anni ormai remoti l’orologio allacciato sopra il polsino della camicia o la cravatta sopra il gilè, con risultati spesso ridicoli. Guardare, invidiare, imparare cosa vuole dire nonchalance e unnderstatement e copiare a man bassa tanto snobismo cosmopolita. La cravatta di lana a nodo grosso con l’abito elegante, la parte sottile che spunta sempre da quella più larga. Lo stivaletto alto di camoscio, spesso obbligatorio per i traumi subiti, abbinato al gessato, sempre e solo di grandissimo taglio. Caraceni dunque, quello di Roma. Le camicie button down con le punte slacciate. Il piumino imbottito color tortora o grigio argento senza maniche allo stadio, oppure il giaccone con i ganci sopra i jeans e il pullover norvegese di lana grossa, quando nella tribuna autorità i vip e i potenti affluivano in cappotto di cammello. Lo smoking rigorosamente blu e mai nero, con i revers a lancia e la scarpa Tods. I suoi tic ne fanno forse il più grande dandy italiano del Novecento, con la differenza che - diversamente da quanto accade con i dandy - Gianni Agnelli ha sempre cercato di essere più casuale (non casual) possibile. Ha sempre fatto apparire ogni gesto come del tutto naturale: assolutamente non azzimato. Definito da Giorgio Armani “un ideale di eleganza, un concentrato di naturalezza”, ha certamente gradito di aver conservato un ottimo piazzamento - il quarto posto – nell’ultimissima classifica stilata da Vogue dei 50 uomini più eleganti del mondo. Eleganti e dunque anche vanitosi: l’Avvocato non ha mai voluto portare gli occhiali da vista, obbligando i suoi collaboratori a stampargli i discorsi da leggere in pubblico a caratteri cubitali. I suoi vezzi sono ormai così proverbiali da essere diventati materia e letteratura da cabaret, gag di effetto sicuro per il più grande dei comici italiani: “Ha lanciato mode tremende - ha detto in un monologo Roberto Benigni - quando andava con l´orologio di fuori dalla camicia, la cravatta fuori dalla giacca, e tutti la cravatta fuori dalla giacca, ora speriamo che non vada in giro col pisello fuori dai pantaloni perché se no l’italiano andrà a spasso in questa maniera”. In effetti Gianni Agnelli è stato anche un formidabile portatore di nudo, visto e paparazzato al timone del Capricia senza niente addosso. Mai in bermuda in barca, ma piuttosto con un asciugamano di spugna drappeggiato sui fianchi come un virile pareo. “È difficilissimo quando si ha a che fare con lui resistere al contagio del suo accento, delle sue battute, dei suoi modi. Io conosco gente che si è rovinata la vita per cercare di imitarli, malgrado il visibile fastidio che tutto ciò provocava nell’originale”, annotò non uno qualunque, ma Indro Montanelli. Comprarsi come lui dei cani Husky. Contare cominciando dal mignolo. Collezionare bottiglie di Chateau Latour del ’45. Imitare per esempio la sua leggendaria impazienza all’insegna del kunderiano motto La vita è altrove. Copiare il suo volere essere dove non è, in quell’imponente maratona contro la noia che è stato ogni giorno della sua esistenza, circondato dai suoi pochissimi veri amici, sempre in competizione fra loro, ribattezzati con soprannomi a volte non riferibili. Sciare, ma solo con l’elicottero, un’oretta. Andare a vela, ma giusto per fare due bordi: un salto di qualche minuto in Corsica ma poi si torna a casa, o in ufficio. Mai vedere un film fino alla fine (“Molto spesso basta il primo tempo per farsi un’idea”), e neanche una partita di calcio. Quasi mai terminare un libro: un paio di capitoli sono più che sufficienti. Andare nei posti e restarci pochissimo. Mai maneggiare denaro. Mai viaggiare con il bagaglio, mai portare una valigia. In ogni sua dimora - Roma, Torino, Saint Moritz, New York - Gianni Agnelli disponeva non solo di quadri di Bacon e di Matisse ma anche di un guardaroba completo: cento camicie tutte uguali o quasi, confezionate da un artigiano irlandese. Mai mangiare più di un quarto di porzione e mai - mai! - dormire a lungo: segno di debolezza. Mai sedersi dietro quando guida l’autista. Mai drammatizzare, e mai perdere la calma. Mai tradire l’assai britannica massima di Disraeli: Never complain never explain. E ricordarsi di un’altra grande verità cara all’Avvocato: “Si innamorano soltanto le cameriere”. Sia playboy che viveur sono parole stantie e non adatte a raccontare la sua vitalità degli anni d’oro, che non vanno limitati a quelli in cui frequentava John Kennedy e l’Aga Khan, o Ranieri di Monaco e Porfirio Rubirosa. Con una formidabile e pazientissima moglie-principessa su cui contare: Marella Caracciolo, vera protagonista dei suoi affetti sullo sfondo di molte comparse» (Laura Laurenzi, “la Repubblica” 25/1/2003). «Un giorno gli chiesero: Avvocato, c’è qualcosa che può fare ancora più felice chi ha già tutto? “Veder giocare Platini per dieci minuti”, rispose Gianni Agnelli. E avrebbe potuto dire auto, soldi, donne, potere, New York, St. Moritz. Per lui, il calcio era la gioia pura e gratuita dell’arte, e la Juventus la forma di questa gioia. Un’altra volta gli chiesero una definizione di Juve, e l’Avvocato disse: “La compagna della mia vita, ma soprattutto un’emozione. Accade quando vedo entrare in campo quelle maglie. Mi emoziono persino quando leggo sul giornale la lettera J in qualche titolo. A volte mi emoziono pure con l´Udinese, sempre per via dei colori bianconeri”. Aveva quasi cinque anni quando suo padre Edoardo lo portò a conoscere la Juventus al campo di corso Marsiglia. Quella volta Gianni Agnelli vide i calciatori da vicino, e in particolare l’ungherese Hirzer. Sei anni più tardi li avrebbe fotografati nella memoria a Villar Perosa, quando la Juve affrontò in amichevole la Pro Vercelli per una festa dei sindacati della provincia di Torino. Ma il ricordo più nitido è ancora un altro. “Rivedo il funerale di mio padre, con i giocatori della Juventus che arrivano uno per volta e si mettono attorno alla bara”. L’Avvocato aveva quattordici anni. Qualche mese più tardi sarebbe andato a “imparare la Juve” assistendo alle sedute del consiglio direttivo, come gli aveva chiesto suo nonno, il senatore Giovanni Agnelli. E il 22 luglio 1947, a ventisei anni, quel ragazzo alto e magro sarebbe diventato presidente per acclamazione, restando in carica fino al ’54. Vinse due scudetti, in pratica inventò il calcio mercato internazionale andando a scovare i danesi John Hansen e Praest, accompagnò l’avvio di Giampiero Boniperti, il campione più amato, e si dimise dopo un incidente d’auto. “Ero all’ospedale di Firenze, mi allontanai un po’ dalla Juventus. Valletta non ci teneva. Toccò a mio fratello Umberto ricostruire”. Ma non sono servite troppe cariche ufficiali perché Giovanni Agnelli diventasse la Juventus, perché la incarnasse e ne fosse ricambiato in un favoloso scambio di soldi, idee, stili. Prima di tutto, la Juve è stata per l’Avvocato una smisurata passione, ma con precise architetture tecniche, non solo emotive. Lui l’ha vissuta per quasi ottant’anni, vincendo ventiquattro dei ventisei scudetti bianconeri (contiamo anche quello dei cinque anni, perché il virus era già inoculato), assecondando tutti i riti della sovranità ma senza mai usare la forza del denaro in modo sfrontato, volgare. L’Avvocato ha saputo tirarsi indietro, quando un acquisto sarebbe stato eccessivo, e persino autopunirsi evitando lo stadio quando scoppiò Tangentopoli: gli pareva brutto mostrarsi gaudente e ludico in quei giorni di apocalisse nazionale. I riti. Arrivava allo stadio Comunale guidando sempre lui, e quasi sempre sgommando, per la visita pastorale agli allenamenti. Una volta ci portò pure Gorbaciov, il quale chiedeva ai vicini “ma perché, ma che c’entra?” e allora gli sussurrarono che la Juve era di proprietà di Agnelli e lo faceva molto divertire. Agnelli entrava nello spogliatoio per vedere, per capire, per imparare ancora. “Bisogna guardare Peruzzi mentre si cambia, la sua massa muscolare fa impressione”. E le storiche telefonate all’alba, per Trapattoni e per quelli che seguirono, al punto da sospettare che la stessa Juventus e il Trap e gli altri non sarebbero mai diventati così svegli, così produttivi, così “torinesi” senza la sveglia dell’Avvocato alle sei di mattina. Gianni Agnelli s’innamorò della Juve mentre suo padre Edoardo vinceva i cinque scudetti dal ’30 al ’35, conobbe la “zona Cesarini” e il ritorno di Luisito Monti, si fece riempire gli occhi da almeno un campione per epoca: Borel, Boniperti che gli chiedeva in premio una vacca (però gravida) per ogni gol, Sivori, Platini, Zidane. Ha sempre amato il calciatore: colui che accende la fantasia e spalanca i mondi dell’impossibile. A volte ci ha giocato come un nonno con i nipoti, inventando definizioni caustiche e abrasive, per esempio Baggio coniglio bagnato, “il più grande giocatorino che io abbia mai visto”. Ma quel coniglio lo appassionava: gli telefonò in America prima della finale contro il Brasile, “mi ha detto di essere a posto, si stava facendo il codino: ci mette ogni volta venti minuti, così si rilassa”. Con la sua Juventus, l’Avvocato ha avuto un rapporto che si potrebbe definire fisico. Al risveglio, dopo che un chirurgo gli aveva messo le mani nel cuore, a New York, chiese se i bianconeri avessero battuto il Parma e vinto il ventitreesimo scudetto, parlando di Deschamps e poi delle sue coronarie. Le prime uscite pubbliche dopo altrettante fratture, bisturi e gessi avvennero, nell’87 e nel ’97, allo stadio. L’Avvocato arrivava in stampelle, oppure nel suo intramontabile piumino beige, e mai una volta che abbia rifiutato una domanda di calcio. “Se mi chiedete spiegazioni tecniche sull’auto, ho duemila ingegneri pronti a rispondere. Però della Juve parlo io”. Andò a comprarsi Platini mandando un mazzo di rose alla moglie di Michel. Ha molto amato gli atipici, gli irregolari e gli anarchici, perché il calcio non è un binario ma una sorpresa. Ha voluto a tutti i costi Zibì Boniek, ha adorato Causio, ha voluto molto bene a Scirea e gli è costata la rinuncia a Zidane: “Un meraviglioso anomalo, non fa mai quello che gli altri si aspettano da lui, però è più divertente che utile”. Allo stadio, Agnelli è stato un sovrano gioioso. Forse lo infastidiva la tribuna d’onore che si voltava di scatto, tutta con gli occhi a lui, per l’esultanza di un gol o il rammarico di un errore. Di sicuro ha amato maggiormente altri riti, soprattutto la squadra che andava a trovarlo a Villar Perosa risalendo a piedi l’elegante giardino, quando la moglie lo andava a chiamare e gli diceva “ci sono qui i tuoi giocatori” e lui se li metteva intorno, parlando con tutti. Disse che Moeller partiva palla al piede “come una ballerina”, e che Vialli giovane era il suo rammarico, quasi come il mancato acquisto di Maradona. Immaginare la Juve senza gli Agnelli? “Spero non accada mai”, disse. Negli ultimi anni andava al campo con la cadenza di un pensionato innamorato, cioè spessissimo. “Di giocatori ne sono passati tanti che ormai mi mancano quasi tutti” diceva, consapevole che il calcio gli aveva permesso persino di abbandonarsi alla malinconia. Non metteva il naso nella gestione del fratello Umberto. “Se vedo un giocatore che mi piace dico ‘cercatemi quello’, sempre se è possibile, poi finisce lì”. Nonostante il potere smisurato, il senso della misura gli è appartenuto sempre, come la sportività: “Poche volte ho visto giocare bene come il Grande Torino, molto importante per la città e per l’Italia del dopoguerra”. I tifosi aggrappati alle ringhiere dello stadio, sudati sotto le ascelle e sbigottiti da tanta Juve lo chiamavano Gianni e gli davano del tu, lui rispondeva stringendo mani e parlando di calcio. Felice, e questo è il miracolo di un pallone, proprio come loro, e a loro assai simile» (Maurizio Crosetti, “la Repubblica” 25/1/2003). «L’Avvocato e la Ferrari. Una vita insieme e forse più. Un amore lunghissimo che era cominciato molto prima di quel 18 giugno 1969 quando ne comprò il 50% delle azioni. Nel giugno del ’97 si festeggiò a Roma il Cinquantenario della Ferrari. Tutte le vecchie e nuove macchine erano schierate al Foro Italico. Venne il presidente della Repubblica in un pomeriggio caldissimo. L’Avvocato a un certo punto si staccò dal corteo e appoggiandosi al bastone puntò dritto su alcuni giornalisti che aveva riconosciuto. Si fermò a carezzare una vecchia Ferrari. “Un’auto straordinaria - disse – l’ho guidata spesso ma era molto difficile, bisognava conoscerla bene”. Era una vettura del 1947, forse la prima costruita a Maranello. L’Avvocato, applicando un consiglio del nonno (“Divertiti così poi ne avrai abbastanza”) si era costruito la fama del playboy che occupa infatti capitoli interi dei libri a lui dedicati. E in quel capitolo di vita c’era già la neonata Ferrari. Conobbe il Grande Vecchio delle corse, Enzo Ferrari, quando andò a Maranello nei primi Anni 50 a ritirare la “sua” Ferrari personale. Lo rivide ai funerali di Valletta. Si conoscevano ma si frequentavano poco anche perché il Grande Vecchio non usciva mai da Maranello. Ma la Ferrari, che pure vinceva, non era quel miracolo sportivo ed economico che appare oggi. Era poco più di una impresa artigianale che però si era allargata molto sia nello sport sia nelle vendite all’estero. La crisi cominciò all’inizio degli anni ’60 e divenne preoccupante verso la fine del decennio. Mancavano perfino i soldi per partecipare a tutte le corse. E la Ford, che batteva la Ferrari in una corsa dal prestigio infinito come Le Mans, corteggiava il Grande Vecchio. Ma l’Avvocato telefonava con corteggiamenti ancora più intensi. C’è chi sostiene che in quegli anni la Fiat, non ancora padrona della Ferrari, allungasse sotto banco molti aiuti. Finché, quando ormai stava per chiudere con le corse, Ferrari andò a Torino, Corso Marconi, ottavo piano, nello studio dell’Avvocato. “Gli parlai del ieri, dell’oggi e del domani. Mi fece parlare a lungo, mai avevo avuto una tale possibilità di esprimere liberamente e compiutamente i miei pensieri. E lui ascoltava, facendo ogni tanto una domanda opportuna”. Così la Ferrari passò alla Fiat. Come sia andato questo matrimonio durato quasi vent’anni (Ferrari morì nell’88 e la Fiat divenne padrona al 90%), è difficile dire. Dietro le quinte non furono sempre rose e fiori. Ecco un episodio. Nel 1987 fu fatto da Canale 5 un grande documentario su Ferrari. Tra gli intervistati anche l’Avvocato. Quando Oscar Orefici si presentò con le telecamere, l’Avvocato chiese: “Ferrari come ha parlato di noi?”. Benissimo, rispose il giornalista. “Allora non posso che parlare anch’io benissimo”. Poi la riscossa, con Lauda, anni d’oro, modelli che spopolavano in tutto il mondo. E gli anni recenti con i trionfi di Schumacher. Quando fu assunto per circa 70 miliardi di lire, l’Avvocato ammise pubblicamente: “Beh, non ci è costato come un pezzo di pane ma è un gran pilota”. Tre mondiali dopo aggiunse: “Quando si ha un pilota come Schumacher, una squadra come quella della Ferrari e una macchina perfetta, è difficile perdere”» (Carlo Marincovich, “la Repubblica” 25/1/2003). «Punta immancabilmente la sveglia alle cinque del mattino. Non per altro, ma per non farsi cogliere impastato nella voce e però, né al telefonino, né all’apparecchio fisso arriva il fatidico trillo e così, Gianni Riotta – nella sua condizione pluridecennale di Furio Colombo in pectore – si riaddormenta deluso perché la “gentilissima ed efficientissima voce” che dice: “Casa Agnelli, le posso passare l’Avvocato?” gli arriva più tardi, però gli arriva (ma di tanto in tanto) e si capisce anche da questo apparentemente inutile slittamento di chiamata che tutta la mitologia raccontata intorno all’uso che Gianni Agnelli fa delle sue penne, è la sostanza di una filosofia che è esoterica ed essoterica al contempo. Ed eccentrica anche, perché non c’è altro eccentrico al mondo, come il presidente onorario della Fiat, che possa vantare tra le sue penne chi gli ha consegnato un Gheddafi rabbonito, e cioè Igor Man (telefonata delle cinque), chi uno smarrito Michail Gorbaciov, e cioè Giulietto Chiesa (telefonata delle diciassette), chi il Santo Padre in persona, e cioè Jas Gawronski (telefonata delle quattro e cinquantacinque). Lettore più di giornalisti che di giornali, ha avuto nella sua scuderia di new journalism, due formidabili campioni diametralmente opposti anche geograficamente: Truman Capote di cui fu allegro mecenate e Indro Montanelli da cui si recò personalmente come un pellegrino per offrirgli il “Corriere”. Uomo di mondo ma pratico, sopporta cristianamente Enzo Biagi, suo biografo in minore, come nella sua veste di fabbricatore d’automobili sopporta la Fiat Panda (l’unica automobile che registra nella dichiarazione dei redditi); si diverte magnanimamente sul gossip, da teorico della contaminazione quale è, convocando all’ora dell’aperitivo i migliori tra i divini pettegoli. A proposito di aperitivo e giornalisti non si può qui non raccontare di quando a Carlo Rossella venne voglia di farsi fare un tatuaggio sull’avambraccio. Era uno di quelli temporanei, una pensata spensierata che però si rivelò un dramma perché da barca a barca, onda su onda, all’allegra brigata di Rossella (c’erano Luca di Montezemolo e Diego Della Valle) capitò d’incrociare l’imbarcazione di Gianni Agnelli che li invitò a bordo, appunto, per l’aperitivo. Salirono tutti e tre sul tender e per Rossella, nel frattempo, non ci fu verso di fare sparire con l’acqua di mare e con accurata frecagione la sirenetta che s’era bellamente pittato sull’avambraccio. Dovette restarsene tutto il tempo con la mano sopra l’avambraccio peggiorando altresì la situazione che nella posa, più che migliorata, fu peggiorata. Avido di risposte, Agnelli fa sempre domande. Freddò Pierluigi Battista fresco capo della redazione romana della Stampa chiedendogli: “Ma è vero che D’Alema ha studiato all’Università di Mosca intitolata a Lumumba?”. Ha anche Furio Colombo tra le sue Panda (telefonata delle diciassette e trenta), dall’“Unità” lo copre sul fronte no global e presso i centri sociali perché non si può ovviamente pensare che Agnelli possa avere delle curiosità per gli allievi sottufficiali CC di Velletri, e questa cura per le sue penne è pari, in lui, a quella del pavone che però, nell’esibizione tra le prime più nascoste e le estreme più snudate penne del piumaggio, considera quest’ultime, inutile dirlo, alla stregua di puro passatempo regale. Gianni Agnelli che vanta tra le sue penne Henry Kissinger ma non ha una sola penna donna, ha affidato al suo centralinista il numero del direttore dell’“Economist”, e se c’è banana da sbucciare, la sbuccia volentieri per tenere fede al suo proposito di proteggere il governo italiano, come quella volta quando mandò a dire: “L’Italia non è la repubblica delle banane”. Ogni tanto organizza incursioni a siluro, vale per tutti quando affidò al retroscenarista Augusto Minzolini una dichiarazione poco lusinghiera nei confronti di Francesco Rutelli. Si era in piena vigilia elettorale, e fece fare il giorno dopo una smentita, però sofisticata al punto di farla leggere solo come una conferma. Esoterico ed essoterico, il sistema teoretico di Gianni Agnelli si svela nella severa separazione degli orari scelti per le telefonate. Volendo ricordare con un esempio sabaudo Camillo Benso il conte di Cavour che era certo parte integrante della corte, non però un cortigiano, Gianni Agnelli, che è Re di una monarchia sottintesa, ha adottato tra i suoi moschettieri quelli delle cinque, quelli della prima ristretta cerchia e cioè, oltre ai già succitati, Paolo Mieli che se ne sta nelle nebbie vaporose dell’aurora a fare anche da ufficiale di collegamento con Cesare Romiti, quindi Marcello Sorgi che è ormai il Falcone Lucifero di casa Agnelli, ovvero il custode cerimoniere di tutta la dinastia, quindi Alberto Ronchey, poi Ferruccio De Bortoli, e poi anche altri che stanno “all’orecchio”, come Francesco Merlo e Ezio Mauro, il già direttore della sua “Stampa” che ai giornalisti diceva sempre: “Ricordatevi che la fortuna di questo giornale è una sola, quella di non essere proprietà di una casa editrice, ma di una persona sola”. Sono quelli che nelle rispettive redazioni mai hanno fatto vanto di certe levatacce, Mauro parla più con Agnelli che con Eugenio Scalfari che a forza di farsi biografo, candidato perfino al Gattopardo Due, non riesce a farsi perdonare l’antico “avvocato di panna montata”. Alain Elkann è bello che sveglio, Massimo Gramellini si fa lasciare i messaggi in segreteria telefonica, ma l’essere chiamati da Agnelli è un così importante titolo di merito nella categoria che qualcuno ha pensato bene di farlo credere al punto di ostentare profonde occhiaie, come di tanto in tanto fa Massimo Giannini di “Repubblica”, oppure lasciando scivolare qualche aneddoto ai confini della leggenda, tipo quello di Gad Lerner, quando Agnelli, curioso come una scimmia, gli chiese: “Ma lei, Lerner, si ricorda ancora come si fanno le molotov?”» (Pietrangelo Buttafuoco, “Il Foglio” 11/12/2001).