varie, 8 febbraio 2002
AGNES Biagio
AGNES Biagio Serino (Avellino) 25 luglio 1928, 30 maggio 2011. Giornalista. Dal 1982 al 1989 fu direttore generale della Rai • «Giornalista cattolico di lungo corso e poi direttore generale della Rai negli anni Ottanta e poi presidente della Stet [...] Ha sempre votato democristiano e nel 1954 ha fondato ad Avellino “Cronache irpine” in compagnia di Ciriaco De Mita, Antonio Mancino, Gerardo Bianco e Antonio Aurigemma [...] È fratello di Mario, l’austero direttore dell’“Osservatore Romano” [...] Dopo la Stet è stato presidente della Cecchi Gori Communications» (Annamaria Guadagni, “liberal” 20/1/2001) • «Nel 1958 lavoravo a Rotosei, un rotocalco a sei dorsi per le famiglie. Andava piuttosto bene e ci scrivevano firme della letteratura come Giuseppe Berto e giornalisti come Maccagatta e Jacobelli… Poi il proprietario si innamorò di donne e cavalli e le cose cominciarono a mettersi male: mi rivolsi ad alcuni collaboratori, già giornalisti Rai, e ottenni un appuntamento con il direttore dei servizi giornalistici di allora, Piccone Stella, un grande latinista. Mi offrì di entrare in Rai a condizione che mi presentassi il giovedì successivo a Cagliari. Allora era terra di confine, ma andai. Poi fui trasferito a Roma dove feci prima radio e poi televisione, sono stato condirettore del telegiornale unico con Willy De Luca e poi sono andato a dirigere la sede Rai di Napoli. A Roma sono tornato per fondare il Tg3 nel 1979 [...] Rivendico con orgoglio d’aver fatto l’operazione culturale che dette alla Terza rete la stessa dignità della Prima e della Seconda. Considero quest’ultima la carta vincente: affidammo a Guglielmi il compito di inventare con grande libertà una rete giovane, nuova, ricca di sperimentazione; e a Curzi, che era stato il mio condirettore al Tg3, la direzione del telegiornale [...] Me ne sono andato dalla Rai, dando le dimissioni, in pieno Caf. È stato il giorno in cui apparve sul “Corriere della Sera” un’intervista dell’allora presidente della Commissione parlamentare di vigilanza, il democristiano Randi, che dichiarava: finché c’è Agnes la Rai non avrà l’aumento del canone [...] Sono andato via con una liquidazione di 150 milioni dopo più di quarant’anni [...] Sono più grosso, più esuberante di mio fratello, lui ha un aspetto da asceta. Una volta siamo stati insieme a colazione dal Papa. Dopo un po’, lui ci guardò e ci chiese: “Ma voi due siete figli della stessa mamma?”» (“liberal”, 20/1/2000). «Ha ideato Check up nel lontano 1977 e non l’ha più mollato. Ha continuato a firmarlo quando era direttore generale della Rai (dal 1982 al 1990) [...] Archetipo di tutti i programmi di telemedicina [...] La prima puntata sui reumatismi non la scorda mai. Tutto iniziò nei centri di produzione napoletani, dove era stato appena nominato direttore dell’informazione regionale campana [...] Voleva promuovere l’immagine di Napoli: gli proposero un programma sulla pizza, il Vesuvio, le canzoni. Lui rispose: perché non le bronchiti e le artrosi? Check up è nato dopo una chiacchierata tra amici in una calda sera d’agosto: Agnes, Giorgio Conte, medico e primo conduttore, Elio Sparano, curatore della rubrica L’altra medicina. Con un intento comune: fare un programma che “umanizzasse” la figura del medico, che avvicinasse dotttori e pazienti [...] Si narra che non abbia esistato a sbarazzarsi del secondo conduttore, Luciano Lombardi, che si era identificato un po’ troppo con la sua telecreatura. Si narra che la trasmissione sia diventata presto un trampolino di lancio per il futuro capo di viale Mazzini: i politici che volevano un consulto senza liste d’attesa dovevano passare per Check up. Qui transitava il meglio dei luminari e baroni sulla piazza [...] Quando abbandonò viale Mazzini, nel 1990, la Rai gli offrì un contratto da ottanta milioni l’anno per occuparsi di Check up. La cosa suscitò un tale putiferio che, l’anno successivo, prese carta e penna per scrivere ai vertici della tv di Stato: non prendo una lira, ma lasciate il programma nelle mie mani. O almeno, così giura ad ogni conferenza stampa [...] Figlio del capotreno di Serino, convocava i professori più autorevoli e li obbligava ad abbandonare i paroloni (“Se invece di dire gastroenterologia diciamo stomaco e intestino , siete contenti lo stesso”) [...] Ad un collaboratore che obiettava “Io non avevo capito”, rispose con una battuta che fece il giro dell’Italia: “Tu non devi pensare, hai la testa solo per dividere le orecchie”» (Annamaria Buonassisi, “il Venerdì” 17/1/1997). «Rammento molto bene la prima volta che misi piede in viale Mazzini. Era il 1968, il palazzo era stato inaugurato due anni prima ed eravamo stati convocati da Bernabei per una riunione di palinsesto, Willy De Luca, Sergio Zavoli ed io. Willy era direttore del tg unico e noi i suoi vice. La prima impressione fu il silenzio. Venivamo da via Teulada, locali strapieni di giornalisti: porte che sbattevano, ticchettio di macchine per scrivere, risate, gente che correva. Saliti al 7° piano di viale Mazzini fummo avvolti dal silenzio, dall’ovatta della moquette e dalla tapezzeria beige [...] Negli uffici dei dirgenti c’era la faccenda dei moduli. Più se ne avevano, più si era potenti’. Il “modulo” Rai è un’unità di misura tutta originale. Il palazzone di viale Mazzini fu ideato come uno scatolone modificabile negli spazi, le pareti mobili potevano apparire e sparire in pochi minuti: per “modulo” si intendeva comunque circa un metro di larghezza, lo spazio di una finestra. “Se avevi 4, 5 moduli eri qualcuno. Non parliamo di 6 o 7. Ma se arrivava la moquette… Significava che eri davvero potente. Un sogno”. In quanto a sogni, ha ancora negli occhi e nella testa l’italicissimo rituale che precedette la sua nomina a direttore generale. Tutto cominciò nelle ore in cui Willy De Luca morì d’infarto, siamo nel luglio 1982, dopo una drammatica discussione in Commissione di Vigilanza Rai [...] “Per noi, e per me personalmente, fu una perdita terribile. In molti presero a preoccuparsi per il futuro [...] Ero il vice di Willy, mi occupavo di radiofonia. I primi a muoversi furono i comunisti [...] Uscendo dall’ospedale in cui era morto Willy, incontrai il presidente della Dc, Flaminio Piccoli. Mi disse: ‘Biagio, devi darti una regolata, chi se non te adesso?’. Risposi che non se ne parlava nemmeno [...] Sentii Ciriaco De Mita, che era segretario, solo per telefono. Lui mi fece la stessa domanda e io: ‘Ti ripeto, non se ne parla neppure, e poi ho problemi di cuore…’. Non era vero, ma davvero non volevo”. A convincerlo (o a costringerlo, prestando cieca fede al titolare di queste memorie) fu Amintore Fanfani, allora presidente del Senato: “Mi convocò e mi intimò: ‘Lei non esce di qui se non dice sì, è un servizio al Paese”. Testuale. Andò avanti per un pezzo. Alla fine dissi di sì”» (Paolo Conti, “Sette” n. 41/1998). «Gli uomini vanno istradati. Celentano, l’ho inventato io in Rai. Vedo che tutti ne hanno il sacro terrore. Sbagliato: il Molleggiato si può gestire. Fece scoppiare una grana anche ai miei tempi. Fui persuasivo: gli fece firmare un decalogo di cose da evitare. Non fiatò. E pagò pure la penale [...] Saccà l’ho scoperto io. Lavorava in una redazione di poco conto. Poverino. Me lo sono portato al Tg3 [...] La mia Rai economicamente non brillava. Ma i professori hanno licenziato e venduto. Facile risanare così. Non nego di aver lottizzato, ma come si diceva allora con Curzi, sempre scientificamente. Nessuno mi ha mai imposto un nome. C’era una rosa e ero io a scegliere» (Denise Pardo, “L’Espresso” 21/6/2001).