varie, 8 febbraio 2002
ALBERTINO
ALBERTINO (Alberto Di Molfetta) Paderno Dugnano (Milano) 7 agosto 1962. Deejay. «Nel 1981, quando l’edonismo reganiano aveva ancora da venire, era lui a far ballare i Clash ai sedici-diciottenni milanesi del Rolling Stone o della pionieristica Radio Milano International. E nel 1989, quando cadeva il muro di Berlino, i sedici-diciottenni di allora ballavano i Simple Minds in mezza Italia col dj Albertino, nelle discoteche e dalle frequenze della mitica Radio Deejay di Claudio Cecchetto [...] Ridicolo che pur essendo uno degli uomini più popolari d’Italia rimanga un semisconosciuto [...] Il suo italiano è lo stesso di Mike Bongiorno, con due differenze: molto slang giovanile e l’ironia volontaria [...] E proprio come il Mike di Eco, ha ”un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato d’inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto [...] non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, amandolo”. Per Umberto Eco, in una parola, la chiave del successo di Mike Bongiorno sta nella sua mediocrità. Per Albertino è più esatto parlare di normalità. ”Io, Albertino, sono nato a Paderno Dugnano, nell’hinterland milanese, da genitori pugliesi trapiantati prima a Foligno e poi a Milano. Una famiglia normale normale normale normale normale normale. Mio padre Michele era un artigiano del legno, con la passione per la musica: ascoltava sempre la radio e suonava la tromba. Il suo cavallo di battaglia era In the mood. Le prime radio private sono nate che avevo quattordici anni. Fare il dj diventò subito il sogno di tutti noi. Incomincio mio fratello Pasquale, più noto come Linus, mentre io finii a radio Studio Lombardia di Cusano Milanino. Avevo sedici anni, neanche un po’ di personalità, nessun timbro di voce: tutto quello che facevo era l’imitazione dei più bravi. Andavo a scuola, al Bertarelli, l’istituto per operatori turistici di Milano, uscivo alle sette meno un quarto, rientravo alle tre e andavo direttamente in radio e poi tornavo alle otto di sera. In discoteca andavo per vedere i disck jockey e studiarli. Se no ci trovavamo a casa di un mio amico elettrotecnico che aveva costruito un trasmettitore. Avevamo un’antenna sul vetro e trasmettevamo dalla sua camera per tutto il palazzo. [...] Mi ricordo le gare di impennate col motorino e tantissime notti passate sul marciapiedi davanti a casa mia, a dire cazzate, a divertirci inventando tormentoni. I miei nascono da lì, da quando avevo quindici anni. Quelli di adesso sono un po’ inventati da me e un po’ presi da quello che sento in giro [...] Il ”piach!”, che sicuramente è il più geniale che abbia creato, risale a bitch (che in slang losangelino si pronuncia bietch) e che vuol dire puttana. Io l’ho adattato, nel periodo in cui Mike Bongiorno diceva un sacco di stronzate sulla tv interattiva. Allora dicevo in radio: anche noi abbiamo il telecomando interattivo, sentite: se questa canzone vi piace, schiacciate il bottone da casa. E poi facevo sentire ”piach!”. ”Vai Alba bella lì”, invece è una cosa che ho preso io dai ragazzi, me l’han detta a un semaforo, una volta. Comunque, dopo pochi mesi di Radio Studio Lombardia sono passato a radio Music e poi a Radio Milano International. Ho piantato lì la scuola perché lavoravo di giorno in radio, e la sera in discoteca, al Rolling Stone [...] Quando Claudio Cecchetto mi ha richiamato a Radio Deejay era il 1984’ [...] Venturina Candida, psicoanalista: ”Resta il fatto che Albertino è una macchina da soldi costruita sul vuoto che i ragazzi hanno intorno [...] Fa credere a chi ascolta la radio e a chi lo segue nelle serate di essere ”contro’ [...] In realtà non si accorgono di foraggiare lo show business, cioè il sistema che più sistema non si può” [...] ”Ma io, Albertino, so benissimo di rappresentare la superficie, di chi mi ascolta. E sono anche un arricchito e un borghese. Mi piacciono le belle macchine, mi sono sempre piaciute. Ciononostante, secondo me io sono di sinistra. Anche se mi ricordo che fino a qualche anno fa, quando io avevo già la Mercedes coupé, se andavo allo Zelig di Milano a vedere i miei amici cabarettisti – tutti di sinistra – parcheggiavo la macchina lontano duecento metri, perché mi vergognavo. Adesso non mi vergogno più”» (Tommaso Pellizari, ”diario” 23/10/1996). «Che delusione, non ha neanche l’orecchino. O, che so, una mezzaluna turca tatuata all’interno del polso o un codino di capelli che gli penzola sulle spalle. Niente. I capelli castani dritti come spaghetti gli accarezzano appena il collo poggiato su due spallucce magre. Maglietta blu accollata, pantaloni da ginnastica, scarpe da tennis: sembra che abbia terminato da poco una partita di calcio tra ex compagni di scuola [...] Gliene hanno dette di tutti i colori: guru, filosofo, capo carismatico. I suoi ammiratori sono stati trasformati, da ragazzi normali che vogliono muovere testa, fianchi e sedere il sabato sera sulla pista da ballo, in suoi seguaci. Di se stesso una volta, quando aveva i capelli lunghi, ha detto con ironia: ”Ho la faccia da ladro d’autoradio”. Un’altra volta si è definito ”una persona per bene” [...] Da 18 anni fa il dj e oggi guadagna circa sette milioni l’ora [...] Non balla, non canta, non suona, si professa astemio, è innamorato della moglie che ha conosciuto in discoteca, ha tre veri amici e tanti conoscenti, non ha tempo libero, dice le preghiere prima di addormentarsi [...] ”A ventun anni, dopo sei mesi che lavoravo a Deejay television, mi hanno detto che non andavo bene. Ci rimasi male. Quello era il periodo in cui se eri bravo stavi in televisione. Poi, ho reagito. Sono andato in America, ho visto che lì i dj delle radio erano delle star. Ho voluto provarci anch’io qui in Italia. Sono stato aiutato da ottimi collaboratori e ci sono riuscito”» (Paola Sconzo, ”Specchio” 17/5/1997).