varie, 11 febbraio 2002
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Biografia di Woody Allen
• (Allen Stewart Koenigsberg) Brooklyn (Stati Uniti) 1 dicembre 1935. Regista. Attore. Ha vinto l’Oscar alla regia e quello alla sceneggiatura originale per Io e Annie (1977) e un altro Oscar alla sceneggiatura originale per Hannah e le sue sorelle (1986). In tutto ha ottenuto sei nomination per la miglior regia (Interiors 1978, Broadway Danny Rose 1984, Hannah and her sisters 1986, Crimes and Misdemeanors 1989, Bullets over Broadway 1994). Ha vinto l’Orso d’Argento a Berlino nel 1975, il Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 1995, non ha mai vinto il Golden Globe (quattro nomination come regista, due come attore) • «Ha trascorso l’infanzia tra i caseggiati popolari. I genitori non lo hanno mai portato a un concerto, a teatro, a visitare un museo. Avevano altro da fare. Lui era felice quando, un po’ malato, poteva stare a letto ad ascoltare la radio: trasmetteva le avventure di Superman. Frequentava anche la sinagoga e rubava qualche dollaro dai soldi raccolti per fondare una patria in Palestina: gli servivano per acquistare gli albi dei fumetti e per entrare nel cinema del quartiere. A sedici anni il mediocre studente Allen Stewart Koenigsberg decide di cambiare cognome e di diventare Woody Allen. Scopre di avere qualche vocazione per il comico, qualcosa, dice, che ”è un regalo, un dono, non si può analizzare”. E manda qualche battuta in giro, ai giornali, che gliela compensano: comincia così la carriera di gagman, uno che inventa trovate; poi di sceneggiatore televisivo, poi di ”intrattenitore” nei night club, per arrivare allo schermo, agli Oscar, alla copertina di ”Newsweek” che, semplicemente, lo definisce ”The genius”. ”Mi domandano – confessa – se aspiro a raggiungere l’immortalità attraverso le mie opere. Non è proprio così: la mia aspirazione è ottenerla semplicemente, non morendo”» (Enzo Biagi, Dizionario del Novecento). «’I miei film descrivono la New York dei miei sogni, dei miei desideri, a volte dei miei ricordi. Vivo in una zona circoscritta. Una mia isola. Lì mi sento sicuro” […] Il regista più ”metropolitano” che ci sia […] sceneggia nel 1965 un film di Clive Donner (Ciao, Pussycat), scrive commedie: una di queste – Provaci ancora Sam – diventerà nel 1972 un film con la regia di Herbert Ross e la interpretazione (smarrita e sorniona, come tutte le altre) dello stesso Allen, impegnato in una patetica sfida con il fantasma di Humphrey Bogart. Nella regia esordisce nel 1969 con una farsa spassosa (Prendi i soldi e scappa) che lo vede anche interprete, come quasi tutti i i film successivi. E con le farse, sgangherate e passabilmente pungenti, continuerà fino al 1977, quando, per Io e Annie, imbastirà una commedia autobiografica zeppa di nevrosi e di tenera autoindulgenza (gli è al fianco Diane Keaton, che per alcuni anni sarà la sua compagna): quattro Oscar lo premieranno. Qui si apre quella vena riflessiva e autoriflessiva che accompagnerà l’autore lungo tutta la carriera: […] Interiors (1978) si ispira alle atmosfere Bergmaniane […] Il più articolato Stardust memories (1980) strizza l’occhio, spiritosamente, a Fellini, ma è solo con la splendida elegia newyorkese Manhattan (1979), percorsa trionfalmente dalla musica di Gershwin, che riesce a conciliare cultura, autobiografia e commedia» (Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del Cinema). «Un’intera carriera in bilico fra Marx (Groucho) e Ingmar (Bergman), fra feroce critica politica alla società di massa modello Marshall McLuhan e suadenti nostalgie sinfonico-jazz alla George Gershwin […] Quasi sistematicamente ignorato dal pubblico americano (mentre incassa assai bene in Europa, Italia compresa). Piccolo, bruttino, occhialuto, rosso di capelli, all’inizio della carriera venne scambiato per un altro Mel Brooks, un comico puro amante della parodia e dello sberleffo, per poi diventare invece l’emblema del liberal-chic nevrotico ed egocentrico, tutto amori problematici e lettino dello psicoterapeuta» (Il grande cinema di Ciak). «Ogni lunedì suonava il clarinetto al Michael’s Pub di Manhattan. Per questo motivo non si presentò alla consegna dell’Oscar per Io e Annie. Adesso suona al Café Carlyle. […] Dopo che divennero noti i dettagli della sua relazione con Soon-Yi Previn, la più grande delle figlie adottate da Mia Farrow, fu accusato da quest’ultima di aver abusato sessualmente del loro figlio più piccolo, Dylan» (People Almanac 2002). «Quando avevo 16 anni ed ero al liceo pensavo che, se fossi diventato famoso, la mia vita sarebbe cambiata: sarei stato ricco e noto, avrei potuto avere tutte quelle donne belle e affascinanti. Il lunedì sarei stato a Parigi, il martedì a Monaco, il mercoledì a Hollywood […] Mi ricordo una ventina di anni fa, quando uscì L’Esorcista a New York, tutti andavano a vederlo e c’erano delle file interminabili davanti ai cinema. Volevo andarci con un amico ma, vedendo una fila così lunga, stavo tornando indietro quando un addetto mi vide e ci fece passare davanti a tutti. Allora qualcuno dalla fila gridò; ”Fascista!”. stato terribile e veramente imbarazzante. Però, per una persona che grida ”Fascista!” ve ne sono cento altre che trovano normale che voi non aspettiate fuori nel freddo […] un grande privilegio, certamente gradevole, ma talmente ingiusto che alla fine mi sento un po’ colpevole […] A casa, quando scrivo la sceneggiatura di un film, penso che sia magnifico. Ma quando realizzo l’idea è sufficiente che io faccia un errore qui e un altro là perché mi dica: ”Ormai non sarà più un grande film”. E spero solo di poter sopravvivere alla sua uscita senza che sia troppo imbarazzante. Poi il film esce e quando la gente mi dice che gli piace io penso: ”Se solo potessero vedere quello che io avevo scritto nella mia camera! Quello sarebbe stato un grande film! […] I miei film sono come il beaujolais nouveau: ce ne è uno nuovo ogni anno. Certe annate sono buone, altre meno, altre di più» (Agnès Jaoui, ”liberal” 18/3/1999). «Alcune delle mie idee sono stimolate da cose che faccio, per esempio vado a corse di cavalli e qualche sera dopo mi viene in mente un film ambientato in un ippodromo […] Quando scrivo non penso mai a chi interpreterà il personaggio» (’la Repubblica” 24/6/2001). «Il dialogo tra Mia Farrow e il regista quando lei trovò le foto di Soon-Yi, la loro figliastra: ”Che roba è?”, chiede la Farrow. ”Foto”. Risponde il regista. ”Foto di Soon-Yi nuda? Stesa a gambe divaricate?”. ”Non facevamo quello che pensi”. ”E che cosa?”. ”Le toglievo alcune insicurezze sulla propria sessualità”. Soon-Yi si prese una seggiolata e Allen perse qualche milione di dollari […] Prendiamo il suo secondo matrimonio, quello con Louise Lasser. Il giudice della corte suprema di New York, George Postel, che deve officiarlo, ha fretta ed è appassionato di jazz. Scambia Woody Allen per Woody Herman, famoso direttore d’orchestra dell’epoca dello swing. Ergo: ”Beata te”, fa alla sposa. Eppoi: ”Vuoi tu Louise sposare il qui presente Woody Herman?”. ”No”, risponde la ragazza che ha capito l’equivoco […] Bisognava essere ciechi e sordi per ignorare l’interesse del regista per le ragazzine […] Teenager davanti alle quali Allen si spogliava quando andavano a omaggiarlo in camerino. Mostrava il ditino e diceva loro: ”Attente a voi!”. Che lui era fatto così lo sapevano tutti. Prendiamo Stacey Nelkin […] il 1976 e lui sta lavorando a Io e Annie, ha 40 anni […] Lei ne ha 17. di buona famiglia e Allen […] cade sempre nelle trappole delle differenze di classe […] Stacey parla francese per lui […] brunetta, sartriana, coté Juliette Greco e, come scopre quando se la porta ”su” per farle una audizione, sul divano è peperina. Ad Allen, secondo i racconti di Mia Farrow, che non è una suora, non piaccione le suore; a letto è guardone e insicuro […] La storia con Stacey dura due anni. Poi le trova un lavoro nel Mid West. […[ La storia finisce nel film Manhattan […] Ma prima ancora […] c’è stata la ragazzina tredicenne che gli scrive e vuole conoscerlo ed è pazza, anche fisicamente, di lui. Allen la invita ”su” e lei si presenta con mamma e amica della mamma, pazze anch’esse di Allen […] di sinistra? Neanche un po’. Lo credono solo in Europa. Sa dirigere gli attori? Per niente» (Dante Matelli, ”L’Espresso” 25/11/1999). «Con i suoi film incantevoli, divertenti e intelligenti, spiritosi, ha insegnato tante cose: a conoscere una New York che non c’è più, ad apprezzare quel mix di autobiografia e autoparodia che è la chiave della cultura contemporanea, a riconoscere l’intellettuale metropolitano. Sempre ridendo, sempre inseguendo la bellezza della vita: Io e Annie, quattro Oscar di sofisticazione e di ridicolaggine; Interiors, la deformazione delle emozioni; Zelig, apologo esemplare sul conformismo; Ombre e nebbia, parabola sull’intolleranza crescente; Mariti e mogli, la fatale crisi della coppia; Celebrity, come la celebrità genera mostri nella decaduta cultura occidentale. di oltre trent’anni fa Il dittatore dello Stato Libero di Bananas, che ancora serve ai nostri vignettisti politici. geniale in Harry a pezzi l’invenzione di Woody Allen che interpreta la condizione in cui tanto spesso con angoscia ci ritroviamo: l’essere sfocato, senza contorni definiti, impreciso, smarrito, incerto del mondo e di se stesso» (Lietta Tornabuoni, ”La Stampa” 27/8/2003). «Non è mai stato un grande regista, diciamo la verità. E da almeno una ventina d’anni i suoi film non fanno ridere neanche un po’ […] A nessuno dei suoi fan sembra essere mai venuto in mente che questo simpatico attore pieno di nevrosi non è altra cosa rispetto all’America, ma ne è piuttosto un frammento minuscolo e prigioniero della propria sfrenata autoreferenzialità. Si può girare tutta la vita film western, come ha fatto John Ford, e in questo modo cantare l’epos di una nazione, raccontare un mondo, interpretarlo e persino provarsi a cambiarlo attraverso il cinema. E si può girare ogni anno un film diverso, come fa Woody Allen, senza mai uscire dalla propria stanza foderata di libri, dalle proprie ossessioni così terribilmente banali. Dal proprio amore di sé […] Se una certa sinistra non capisce l’America è perché ha visto troppi film di Woody Allen» (Panorama”, 4/10/2001). «Sono molto stabile e coscienzioso, soprattutto quando lavoro. Sono uno molto disciplinato. Preferisco scrivere i copioni che stare sul set, ma finora nessuno mi ha mai fatto causa per non aver completato un film, non sforo mai il budget prestabilito, non sono irascibile, non mi sono mai ammalato […] Non ho mai lavorato a Hollywood, giro sempre e solo a New York. Non ho mai avuto a che fare con gli executives degli Studios, nessuno vede mai i miei copioni o discute sul mio casting» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 23/4/2002). «Poiché sono io che li scrivo, in ogni film ci sono io, le esperienze della mia vita, le cose che amo o che detesto, è inevitabile. Non lo faccio volutamente, è inevitabile che il mio percorso esistenziale si rifletta nei miei film. Ma tra le donne e gli psicanalisti c´è una bella differenza, non tutti hanno bisogno degli psicanalisti, loro sono un optional, le donne sono necessarie a tutti [...] Come tutti i comici, sono pessimista, depresso, vedo tutto nero. Quando faccio un film devo scegliere: è meglio mettere il pubblico di fronte alla tetra realtà, rattristarlo oppure regalargli un´ora e mezzo di leggerezza e di sorrisi che gli faccia dimenticare l´orrore del mondo reale? Spesso scelgo la seconda ipotesi e cerco di far ridere la gente e farla uscire dalla sala più allegra e rinfrescata, ma talvolta racconto la realtà in tutta la sua tragedia, voglio che il pubblico si terrorizzi, si renda conto della gravità dei problemi: con la segreta speranza che salti fuori qualcuno con una buona proposta per risolverli» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 28/8/2003).