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 2002  febbraio 11 Lunedì calendario

Almonte Danny

• Moca (Repubblica Dominicana) 7 aprile 1987. «Il bambino dal braccio d’oro era nato due volte. Quando era nato la prima volta, nel villaggio di Moca, nell’isola di Santo Domingo, le fatine buone dello sport, quelle che ogni tanto si curvano sulla culla di bambini chiamati Maradona, Pelé, Michael Jordan o Schumacher, gli avevano portato i doni che fanno di un essere umano qualsiasi un campione. Gli avevano dato tutto, occhio, fisico, simpatia, braccio, anche troppo. Gli avevano dato due certificati di nascita, uno vero e uno falso e l’avevano mandato a giocare negli Stati Uniti che non sono l’Italia del pallone e delle truffe. E a 12 anni, anzi a 14, Danny Almonte, il bambino d’oro del baseball americano con due certificati di nascita è un bambino finito che non potrà più giocare. Ma questa non è una fiaba di fatine buone e di doni. Questa è una storia di orchi, di quei mostri che vediamo sorridere con le loro dentiere brillanti sui teleschermi del nostro calcio e trattano bambini, ragazzi, esseri umani da tutto il mondo per divorarli nella tana dello sport costruito soltanto per fare, o perdere, miliardi. Danny Almonte, il piccolo grande asso del Baseball che aveva addirittura già ricevuto le chiavi di New York dal sindaco Giuliani e i complimenti pubblici dal presidente George Bush, era destinato a diventare ricco e a fare arricchire l’esercito di orchi, lenoni parassiti che oggi succhiano la chiglia degli idoli sportivi. Attorno a lui, alla sua figura già alta e ben formata, al suo sorriso gentile e profumato di Caribe, al cannone che aveva al posto del braccio destro capace di sparare la pallina da baseball a 130 chilometri all’ora, una famiglia, un’isola, un’industria disperata aveva costruito il futuro di uno sport che ha bisogno di eroi da venderci. Da quando era stato in grado di camminare e tenere in mano il succhiotto, l’orco padre, Felipe Almonte, gli aveva messo in mano una pallina da baseball, come fanno tutti i ragazzini a Santo Domingo, la succursale coloniale di Cuba. ”Non faceva altro che lanciare palline o maneggiare la mazza da baseball”, ricorda la madre che invece non ricorda di averlo mai visto andare a scuola o leggere un fumetto, là a Moca. Quando compì 9 anni, il padre lo portò con sé su un aereo diretto a New York, la Gerusalemme del baseball, il tempio degli Yankee, di Babe Ruth, di Joe di Maggio e Mickey Mantle. Aveva un visto turistico, per 90 giorni, ma che cosa sarà mai un visto legale per un ragazzino che prometteva fortune e vittorie per uno sport che ormai arranca nella concorrenza con football e basket? Coi soldi si aggiusta tutto, lo sappiamo bene. Lo portò nel Bronx e attorno al figlio ”del milagro”, al campioncino col braccio d’oro, costruì una squadra di Little League, di campionato per bambini fino ai 13 anni. Brillante, l’idea di quel truffatore di papà Felipe: li battezzò i Baby Bombers, i baby bombardieri. Il suo Danny fece carne di porco degli avversari, battitori bambini davvero che neppure riuscivano a vedere il razzo che lui gli sparava contro. Vinse tutto quello che c’era da vincere nella Little League che da un pezzo non è più un campionato per bambini. Con squadre affiliate in cento nazioni, 7 mila club soltanto negli Usa, duecentomila iscritti, dirette televisive e stadi da 40 mila spettatori, la ”Lega dei Piccoli”, un tempo languido passatempo estivo per i teneri brocchetti come Charlie Brown e i giovani nevrotici come Holden, è il vivaio organizzato, ultra allenato, setacciato da quell’immenso mercato della carne e del circo che è lo sport professionale nel quale genitori e procuratori, magnaccia e allenatori hanno ormai perso la ragione abbagliati dai soldi. ” un campionato che ormai appartiene a tutti, ai procuratori, ai piazzisti di materiale sportivo, ad allenatori frustrati, a padri e madri urlanti, a maneggioni corrotti, a venditori di scarpette, a tutti meno che ai bambini”. Ma Danny che ne sapeva, di psicologia dell’infanzia ed economia di mercato? Lui sapeva lanciare la palla come nessun all’altro alla sua età. Da Santo Domingo, l’isola che fornisce diecine di giocatori all’orco americano in attesa che Cuba torni la principale riserva di caccia, lo seguivano come un Gesù Bambino del diamante d’erba. Uno come Sammy Sosa, campione dominicano adulto, vale 30 miliardi di ingaggio all’anno. Quando i Baby Bombers stravinsero il campionato regionale di New York, gli organizzarono una parata per strada, con lancio di coriandoli, come agli astronauti e a Charles Lindbergh. Giuliani gli consegnò le chiavi di Manhattan. Quando andò alle finali mondiali della Little League, le World Series, in agosto, la sua squadra perse contro i Giapponesi, ma lui giocò una partita perfetta. Nessuno riuscì a toccare i suoi lanci. Troppo perfetto. Un dannato giornalista di quelli che ancora esistono in America per la sfortuna del potere sportivo o politico, prese l’aereo e sbarcò a Santo Domingo. Chiese copia del certificato di nascita del bambino dal braccio d’oro alla Officialia anagrafica e scoprì che il certificato presentato dal papà agli arbitri della Little Laegue era cartaccia che avrebbe fatto arrossire anche un Prisco, un Cragnotti, un Sensi o un Galliani. Indicava il 17 aprile 1989. Ma quello vero, fornito dall’anagrafe, diceva 17 aprile 1987, mettendo Danny ben oltre il limite massimo dei 12 anni e 11 mesi, per giocare. Invano, nel suo villaggio, la gente disperata si raccoglieva attorno alla casa della mamma cantando ”doce, doce”, dodici, dodici. Il bambino era un ragazzo troppo grande e già troppo vecchio. Bush, che ha barato a un’elezione presidenziale ma guai a toccargli la Little League del quale è stato ”genitore dell’anno”, si è indignato, Giuliani gli ha portato via la chiave, l’assessorato alla pubblica istruzione di New York sta meditando di denunciare il padre che non lo ha mandato a scuola un solo giorno e il servizio Immigrazione sta pensando di espellerli tutti e due, perché sono immigrati illegali anche se difficilmente clandestini. E il bambino che il tempo dell’ingordigia sportiva aveva fatto nascere due volte, sarà condannato lui l’unico innocente alla morte dei suoi sogni» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 2/9/2001).