Varie, 11 febbraio 2002
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Altman Robert
• Kansas City (Stati Uniti) 20 febbraio 1925, Los Angeles (Stati Uniti) 20 novembre 2006. Regista. Madre irlandese, padre tedesco. Nel 1945 si arruolò in aviazione e divenne copilota di un B-24. DDopo il congedo andò a lavorare in una società che si occupava di realizzazione di documentari, spot pubblicitari e film didattici. Nel 1955 fu Alfred Hitchcock a dargli la prima vera occasione affidandogli la regia di un episodio della sua serie tv. Dopo anni di lavoro in produzioni televisive di successo (su tutte Bonanza), Altman ottenne la direzione di Mash (1970), che gli aprì la strada alla regia cinematografica. Tra i suoi film Nashville (1975), Streamers (1983), I protagonisti (1992), America oggi (1993), Prêt-à-Porter del ”94, Gosford Park (2001). «[...] Gli piace parlare più della vita che del cinema, ma poi mescola sempre le due cose, in una sorta di collage, che assomiglia ai suoi film, a quella che con un sorriso definisce ”la Nashville della mia cultura, della mia esistenza curiosa e che sento ancora giovane perché so ascoltare il jazz e il rap, leggere un buon fumetto o un testo di teatro”. La sua memoria è puntellata da aneddoti, ricordi, riferimenti letterari e pittorici. Ricorda benissimo l’America di quando non c’era ancora la televisione e lui, mandato a studiare dai gesuiti sognava di comunicare attraverso la pittura, la radio, la scrittura. [...] ”A volte, mi piace pensarlo, l’Europa ha capito di più il mio Paese grazie anche al mio cinema. Non ho mai vissuto da vittima, mi sono sempre sentito un protagonista libero. Hollywood voleva strutture rigide, io amavo i film mosaico, dove le atmosfere avevano la meglio sul lieto fine, su copioni macchinetta e su falsi eroi con la grancassa [...] Odio le regole del business, il capitalismo mercificato del cinema sintetizzato dall’orrida parola ”box office’. Ma Hollywood divora e ripropone sempre in modo nuovo se stessa. Come la California, che spesso ho raccontato. Gli effetti speciali, che non amo, hanno indicato una nuova strada del cinema, qualcosa di buono è rimasto per il futuro. [...] L’America è un Paese di truffatori, uomini talvolta geniali e sognatori. I migliori attori sanno essere tutto questo e poco importa se hanno o no un Oscar in tasca”» (Giovanna Grassi, ”Corriere della Sera” 14/2/2005). «Il suo cinema guarda al mondo come una divertente, paradossale e frenetica gabbia di matti. Dopo aver studiato dai gesuiti (è un buon cattolico), aver partecipato alla seconda guerra mondiale come pilota, essersi impadronito della tecnica audiovisiva facendo film industriali e lavorando in televisione, approda al cinema con opere di scarso peso. Solo con [...] la farsa bellica di Mash (1969), mette davvero piede nel cinema [...] Ha compreso che l’umanità è in preda al delirio, e il delirio racconterà» (Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema). «Grande autore/guastatore (di luoghi comuni, di generi cinematografici, di ogni forma di conservatorismo) è perciò naturalmente inviso a Hollywood, sempre sul punto di lasciare il cinema (per insuccessi, per stanchezza) [...] è forse il cineasta statunitense moderno che più di ogni altro si è avvicinato a un’idea già cara ai narratori della Generazione Perduta: scrivere, o meglio filmare, il Grande Romanzo Americano. Due sono le caratteristiche chiave del suo cinema. La prima, più politica e che gli ha fruttato la simpatia del pubblico più progressista, è quella di scardinare i generi cinematografici, per creare una nuova epica allegorica e provocatoria [...] Il secondo elemento, più stilistico, è invece quello della coralità [...] Caratteristica del suo cinema è la tecnica dell’overlapping, ovvero la sovrapposizione indifferenziata di voci, suoni e rumori nella colonna sonora. Per ottenere questo effetto, inaugura sul set di California poker il sistema di registrazione sonora di sua invenzione a otto piste» (Cento registi). «La cultura americana è permeata di ipocrisia. Ma ogni società si basa sulla finzione. Anche la famiglia. Prenda una di quelle occasioni in cui si riunisce per le feste, per esempio: c’è il ragazzino che si droga, la giovane che è incinta ma non del marito, tutti lo sanno ma parlano d’altro [...] La Hollywood convenzionale, o meglio gli studios, non ha un mercato per quel che faccio io, loro vendono scarpe e io produco guanti. Non è che io non abbia amici tra loro, è che proprio non li conosco, non so neppure come si chiamano. Ci sono pochissime persone creative oggi nel marketing. [...] Sono stato allevato in una casa tutta di donne. Ero l’unico ragazzo, il figlio più grande. Per loro ero qualcosa di speciale. Mi sento più a mio agio con l’elemento femminile. Oggi le donne sono molto più represse di quanto non credano [...] Non ho mai vissuto un giorno senza pensare a un mio progetto. E ogni mio lavoro è dipeso dalle mie scelte, anche se l’idea me l’avevano portata altri. Negli anni 80 ho cominciato a fare teatro e a mescolare teatro e cinema. Quando sono passato da grossi film con visibilità internazionale a piccoli lavori, il grande pubblico, attraverso la stampa, ha pensato che stessi attraversando un periodo tremendo. Non era vero [...] Dentro mi sento 32 anni, poi mi vedo allo specchio e mi domando: chi è quel vecchio?» (Manuela Grassi, ”Panorama” 8/4/1999). «Ha ”fatto di tutto” perché il suo film Gosford Park (ispirato alle Regole del gioco di Jean Renoir, ”Golden Globes” per la regia 2001) fosse vietato ai minori di 17 anni: ”Non capisco come sia successo, ma all’improvviso l’intera industria di Hollywood si è messa a lavorare esclusivamente in funzione dei maschi di 14 anni. I bambini al mio film non sono invitati. Non è per ragioni morali. Non li voglio in sala perché a loro non piacerebbe. Non voglio che escano dal cinema giudicandolo un film terribile”» (’la Repubblica”, 16/12/2001). «Volevo fare il pittore, ma la tela mi limitava. [...] Hollywood, gli studios mi chiedono cose che non farei bene, io cerco di andare avanti nelle mie ricerche, mi piace saltare dentro la nebbia, mi interessa pormi di fronte a uno specchio che sempre cambia le sue immagini» (Giovanna Grassi, ”Corriere della Sera” 9/9/2003).